La Cultura dello Stupro (for Dummies)

Il caso del figlio di Beppe Grillo, Ciro, indagato insieme ad altri 3 ragazzi di stupro di gruppo è sulla bocca di tutti da giorni. Questo perché il famoso genitore ha divulgato tramite social un video estremamente concitato (e decisamente polemico) in cui difende il figlio e gli amici girando la frittata e trasformando la vittima in una bugiarda.

Non mi soffermerò sul caso specifico perché non mi sento sufficientemente preparata in materia legale per analizzare da quel punto di vista la storia, inoltre le indagini sono in atto e chi di dovere sta già compiendo il suo.

Quello che voglio fare oggi è andare al nocciolo della questione. In un mondo apparentemente (molto apparentemente) paritario, esiste ancora un alone enorme di cultura patriarcale per cui quando viene denunciato uno stupro gira che ti rigira la colpa sembra sempre essere della donna.

Esistono manuali “for dummies” (per novellini-incapaci-negati) di qualsiasi cosa. Bene, io ora ne farò uno in formato bignami sulla cultura dello stupro, conosciuto nel web nella sua versione inglese Rape Culture.

Che cos’è la Rape Culture?

Iniziamo con una semplice definizione.

La cultura dello stupro è un termine utilizzato per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono prassi comune[1], ma che soprattutto sono supportati da atteggiamenti che normalizzano, minimizzano e addirittura incoraggiano la violenza sulle donne.

L’origine di questa espressione lessicale non è certa. Quello che si sa è che la prima a parlarne, negli anni Settanta, è stata la produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus che nel documentario “Rape Culture”, appunto, affronta il tema della rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e in generale nelle arti.

Tutto chiaro fino a qui? Immagino che la definizione in sé inorridisca solo leggendola. Sono sicura che se andaste per la strada a chiedere alla gente se in Italia questa sia una cultura presente, in molti, soprattutto con un’età dai 45 anni in su, risponderebbero “Assolutamente no. È un paese civilizzati il nostro!”

Eppure il 31,5 % delle donne con età compresa tra i 16 e i 70 anni nel corso della loro vita ha subìto almeno una violenza sessuale[2]. Il 31,5%.

E pensate un po’, sapete perché la gente malgrado questo dato pensa che in Italia non ci sia una cultura dello stupro? Perché in questo 31,5% di donne che hanno subito violenza, il 78% delle vittime non si è rivolto a nessuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati.

Perché?

Eccolo il punto: paura, vergogna e molto altro.

Qui devo riportare un altro termine: VICTIM BLAMING ovvero traslare la colpevolezza sulla vittima (allarme Grillo attivato!), minando quindi la sua credibilità.

Una donna tendenzialmente non denuncia perché teme di rimanere vittima anche di Victim Blaming. Chiarisco subito, è pur sempre un manuale per Dummies no?

Nel momento in cui una donna trova il coraggio e la forza di denunciare ecco cosa succede: le numerose falle nel sistema giuridico, ma soprattutto, talvolta, la mancanza di sensibilità ed empatia nei contesti in cui la vittima si ritrova al momento della denuncia, fanno sì che si inneschi quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria. La vittima “subisce” una serie di domande, chiarimenti, e richieste di dettagli (talvolta superflui) che riportano, facendola rivivere, alla violenza subita. Tutto questo perché il “ragionevole dubbio” viene applicato nei confronti della credibilità della vittima non sulla colpevolezza dello stupratore. Una sottile differenza che se analizzata bene non è poi così sottile: queste domande vogliono in realtà cercare una qualche incoerenza nella narrazione della vittima. Vogliono “fregarla” detta in parole povere!

Ecco quindi tornare il nostro argomento principale: la cultura dello stupro. Purtroppo i pregiudizi sessisti sono ancora insiti nella nostra cultura e se questi sono presenti in chi per primo assiste le vittime di violenza di genere il risultato è che chi denuncia ne esce martoriato.

Michela Murgia spiega il fenomeno su Repubblica dicendo che «il consenso tra adulti esiste se le persone fanno un patto su termini condivisi», aggiungendo «Per un meccanismo sociale che si chiama cultura dello stupro – quella secondo la quale la violenza è sexy e la sessualità è violenta – in Italia avviene l’esatto opposto: il consenso femminile ai rapporti sessuali è considerato implicito anche in assenza di disaccordo. Se non dici no, allora è già sì».

Arriviamo ad esempi concreti. Volete delle frasi tipiche di quando si viene a sapere che una donna è stata stuprata? Eccovele: “Sono solamente ragazzi”, “stavano giocando”, ma poi lei “indossava una gonna troppo corta”, “era ubriaca”, “se l’è cercata”, “Se vai in giro da sola cosa ti aspetti?”. Queste sono solo alcune (le prime che mi sono venute in mente) e anche questo atteggiamento ha un nome specifico: Slut Shaming, cioè la pratica di stigmatizzare comportamenti e desideri sessuali della donna considerandoli sfacciatamente volgari, inappropriati o provocanti[3]. E attenzione, questa non è una pratica prettamente maschile, no, a volte sono proprio le donne a dire frasi del genere. Sì perché la Rape Culture, come detto, fa parte di una cultura patriarcale da cui ancora non siamo riusciti ad allontanarci del tutto. È comprensibile, non è facile accettare che stupri ed abusi sessuali non siano solo casi eclatanti e straordinari, bensì parte integrante di un invisibile quanto concreto sistema sociale, culturale e ideologico.

Torno ora al concetto di “Rape Culture” ma soprattutto alle sue origini, non della denominazione, bensì dell’atto stesso dello stupro.

Nel 1975 l’attivista Susan Brownmiller esprime il PARADIGMA DELLA CULTURA DELLO STUPRO. Nel suo libro “Against Our Will: Men, Women and Rape” è chiara la sua visione per cui lo stupro sia “un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”. Quello che affascina nello studio della Brownmiller è che ritiene che il fenomeno dello stupro non sia legato all’immoralità degli uomini che cercano gratificazione sessuale, bensì è un’invenzione dell’uomo per mantenere un sistema di dominio psicologico sulle donne. Vi cito un passaggio:

“L’ingresso forzato di lui nel corpo di lei, nonostante le proteste e le lotte fisiche di lei, divenne il veicolo della conquista vittoriosa sulla vita di lei, la prova ultima della forza superiore di lui, il trionfo della sua virilità. La scoperta da parte dell’uomo che i suoi genitali possono servire come arma per generare paura deve essere considerata una delle scoperte più importanti nell’epoca preistorica, insieme all’uso del fuoco e alla prima ascia di pietra grezza.”

In pratica un atto di potere e di controllo. Bisogna assolutamente far passare il messaggio che “ammettere che lo stupro è radicato nei desideri umani in realtà equivale a un incitamento allo stupro[4]

Il RAINN (Rape, Abuse & Incest National Network), una delle principali organizzazioni del Nord America contro la violenza sessuale, non è del tutto d’accordo. In un rapporto infatti sostiene che lo stupro “è il prodotto di individui che hanno deciso di ignorare il messaggio culturale travolgente secondo cui lo stupro è sbagliato” e ancora “la tendenza a concentrarsi su fattori culturali che presumibilmente condonano o normalizzano lo stupro ha l’effetto paradossale di rendere più difficile fermare la violenza sessuale, poiché rimuove l’attenzione dall’individuo in errore, e apparentemente attenua la responsabilità personale delle proprie azioni”.

Il dibattito è ancora aperto e penso lo sarà ancora per molto, ma interessante è ciò che ha detto la giornalista britannica Laurie Penny: “nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle pratiche femministe più importanti degli ultimi tempi, ma anche una delle più discusse e fraintese”.

Infine, voglio ricordare e sottolineare mille volte che la Rape Culture, come dice Laurie Penny , non descrive necessariamente una società dove lo stupro è routine, attenzione: “la cultura dello stupro descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzate e giustificate aspettandosi che le donne vivano nella paura.”[5]

Visto che ho presentato questo articolo come un mio tentativo di divulgare in modo semplice il concetto di Rape Culture, provvedo a lasciare di seguito un piccolo glossario da tenere a mente in futuro, quando sentirete o leggerete dello stupro o violenza subìto da una donna.

  • Cultura dello stupro/Rape Culture: Per gli studi di genere e la sociologia include tutti quegli atteggiamenti che tendono a giustificare e normalizzare la violenza sessuale subita dalle donne
  • Slut Shaming (stigma della puttana): termine definire l’atto di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si discostino dalle aspettative di genere tradizionali 
  • Victim Blaming (colpevolizzazione della vittima): atto che ritiene la vittima responsabile del crimine che ha subìto e denunciato portandola ad autocolpevolizzarsi.

Cocludo ricordando una cosa importante:

«Non è necessario aver subìto uno stupro per subire le conseguenze della cultura dello stupro. Non è necessario essere uno stupratore seriale per perpetuare la cultura dello stupro. Non è necessario essere un convinto misogino per beneficiare della cultura dello stupro».

immagine presa dal profilo IG di Repubblica

Grazie al cielo esistono uomini come Michele Dal Forno, un ragazzo di 21 anni che per aiutare una ragazza in difficoltà è stato aggredito con una coltellata che gli ha sfregiato il viso. Mi viene da dire, “Per ogni Beppe Grillo dovrebbero esserci almeno 10 Michele Dal Forno”.

Lady F.


[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_dello_stupro

[2] Dati ISTAT https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza

[3] https://www.wired.it/attualita/media/2021/04/21/rape-culture-cultura-dello-stupro-cos-e/?refresh_ce=

[4] C. Brown Travis, Evolution, Gender, and Rape

[5] https://longreads.com/2017/10/10/the-horizon-of-desire/

16 aprile 1746. La Battaglia di Culloden e le Clearances delle Highland

Questa data segna l’inizio di uno dei periodi più dolorosi della storia della Scozia.

Oggi, per commemorarne i 275 anni, vi porterò nel XVIII secolo un tempo segnato da sommosse, ribellioni, battaglie sanguinose e controversie che si concluderà con la tragica battaglia di Culloden che cambierà la comunità e l’infrastruttura nelle Highland per sempre.

Ma cominciamo dal principio. Tutto inizia con Giacomo VII (come lo chiamano in Scozia) o Giacomo Secondo (come è conosciuto in Inghilterra), l’ultimo monarca cattolico a governare i regni di Inghilterra, Scozia ed Irlanda. In seguito all’invasione del genero protestante e della destituzione dal trono, Giacomo è costretto all’esilio in Francia. Il visconte Henry Dundas, il più zelante sostenitore scozzese di Giacomo, raduna delle truppe e avvia un’azione militare contro le forze di Guglielmo e Maria. Scoppia quindi la prima rivolta giacobita, ma non ha molto seguito. Nel 1707 i due regni di Scozia ed Inghilterra vengono uniti con grande sgomento di quanti sostenevano la causa di Giacomo VIII o Giacomo III il quale cerca di reclamare il trono due volte nel 1708 e nel 1715. Nel 1719 i giacobiti trovano un alleato nella Spagna. Non essendo riuscito a persuadere il governo francese ad impegnarsi in un’altra invasione, il principe Carlo, chiamato “il giovane pretendente” o “Bonnie Prince Charlie”, decide di finanziare la sua insurrezione. Naviga dalla Francia alla Scozia e arriva nelle Ebridi esterne nel luglio 1745 da cui ripartire per attraversare le Highland e radunare un esercito giacobino. Non tutti i clan però si uniscono alla causa giacobita e proprio per questo non si può parlare di una ribellione nazionale; tuttavia furono moltissime le persone che decidono di unirsi al Bonnie Prince Charlie. Con il suo esercito marcia verso sud con l’intenzione di entrare a Londra e le vittorie e i successi delle forze giacobite crescono di giorno in giorno. Charlie e i suoi conquistano prima Edimburgo ed infine quasi 10.000 uomini giungono a Derby, poco distante dalla capitale inglese, ma poi la situazione si ribalta: piano piano il morale delle truppe inizia a calare, complici un rigido inverno, la carenza di provviste e la lontananza da casa. È a questo punto che viene presa la decisione più sbagliata che segnerà tutte le mosse future. Si ordina infatti di tornare a nord, in una lunghissima marcia al freddo, nella neve, nel fango, sotto il costante attacco degli inglesi che spingono l’esercito giacobita sempre più a nord.

Arriviamo dunque alla fatidica battaglia il 16 aprile 1746 in una brughiera paludosa chiamata Culloden. Un esercito di circa 5400 giacobini si prepara ad un brutale ed inesorabile scontro con i più di 8000 soldati inglesi. Si conclude nel giro di poche ore una vera e propria carneficina per la parte scozzese: senza nessun consiglio di guerra, infatti, le truppe giacobite vengono letteralmente spedite incontro alla morte. Gli scozzesi si schierano su due linee, la cavalleria meno di 200 elementi, ai lati e 12 vecchi cannoni leggeri davanti alle truppe. Gli inglesi invece possono contare su un gruppo nettamente più numeroso di cavalleria e anche su più cannoni e mortai. A mezzogiorno, sotto una pioggia battente, le truppe governative avanzano ordinatamente sul campo di battaglia e prendono posizione, le cornamusa scozzesi iniziano a suonare sfidati da rullo dei tamburi inglesi; i piccoli cannoni giacobiti fanno fuoco ma non provocano danni, al contrario la forte artiglieria pesante di Cumberland spezza subito le linee scozzesi che ricevono però l’ordine di mantenere la loro posizione. Il Bonnie Prince Charlie è troppo distante per vedere i danni provocati nelle prime linee e ordina di attaccare.

Rievocazione della carica giacobita

Quasi un’ora dopo infine ha inizio la carica giacobita. Gli scozzesi avevano da sempre usato la carica come tattica di battaglia sorprendendo il nemico ed aggredendolo selvaggiamente, puntando sulla velocità che permetteva di raggiungere le linee avversarie ricevendo solo una carica di fucile o al massimo due prima di scontrarsi corpo a corpo. Una tattica che si era quasi sempre rivelata vincente ma non in questa occasione: il vasto campo aperto, il terreno estremamente paludoso e la potenza del fuoco nemico hanno la meglio sulla velocità, sulla forza e sulla ferocia degli Highlander che avanzano disordinatamente e troppo lentamente, rimanendo esposti al fuoco dei moschetti troppo a lungo. La battaglia è violenta e brutale e si conclude come detto nel giro di solo un’ora. Sul campo insanguinato di Culloden giacciono circa 1250 morti  giacobiti e altrettanti erano feriti; 376 vengono fatti prigionieri. Le truppe inglesi perdono solo 50 uomini e 300 rimangono feriti al termine dello scontro. Il duca di Cumberland ordina di sterminare immediatamente tutti i feriti agonizzante sul campo di battaglia, di rincorrere ed uccidere i fuggiaschi e di non risparmiare nemmeno i civili, donne i bambini che offrono aiuto e riparo ai giacobiti sconfitti. Molti di questi vengono catturati e portati in Inghilterra, stipati in prigioni disumane e torturati, affamati, umiliati, lasciati a morire di stenti.

Hanno giurato di combattere e morire per il loro bel principe e così avviene.

Riesci a sentirli, riesci a vederli marciare con orgoglio attraverso la brughiera? Senti il vento soffiare attraverso la neve alla deriva? Dimmi, riesci a vederli i fantasmi di Culloden?

[…] Spade e baionette si schiantano – da uomo a uomo si scontrano. Sono venuti per combattere, per vivere e ora muoiono.

– The Ghost of Culloden –

A seguito delle barbarie commesse durante e dopo la battaglia al duca di Cumberland viene dato il soprannome di “macellaio”.

936 giacobiti vengono deportati nelle colonie americane o nelle Indie occidentali; 120 vengono condannati a morte e 1287 vengono liberati. Molti altri muoiono in prigione o in mare.

E il principe Charlie? Lui riesce a fuggire mettendonsi in salvo a seguito di una lunga fuga in lungo in largo per la Scozia e aiutato da Flora McDonald la cui storia potete conoscere nel mio episodio PodCast a lei dedicato.

La famosa canzone popolare “the Skye Boat song” narra proprio di questa fuga e di come il principe sia riuscito a tornare a Roma dove poi morirà vecchio, depresso ed alcolizzato.

La Scozia ne esce definitivamente vinta e umiliata: l’indipendenza perduta, la Chiesa cattolica brutalmente perseguitata. Nelle Highland negli anni che seguono il governo inglese mette in atto un vero e proprio tentativo di repressione totale della cultura gaelica scozzese e di sottomissione degli abitanti. L’intenzione è di spezzare la volontà e l’orgoglio di questo popolo. Per prima cosa occorre smantellare il sistema dei clan ed eliminare il simbolo della cultura gaelica: vengono così banditi i kilt, il tartan, le cornamusa e l’uso della lingua gaelica. I clan vengono sciolti e privati delle loro proprietà, si anglicizzano i nomi delle persone e dei luoghi ed infine si attuano le cosiddette “clearances”: delle vere e proprie pulizie etniche che durano approssimativamente dal 1750 al 1880. Durante questi anni moltissimi scozzesi sono costretti ad abbandonare le loro case per far spazio all’allevamento delle pecore emigrando in America spostandosi sulla costa.

Consiglio il libro in foto: molto accurato.

Il luogo della battaglia viene affidato al lealista Duncan, rimanendo proprietà della famiglia per i successivi 150 anni. Nel 1881 forse un erede del precedente Duncan, costruisce l’odierno Care commemorativo e fa reggere le pietre a memoria degli uomini deceduti in battaglia; vengono anche restaurati i due antichi coat presenti sul campo.

Monumento ai caduti

Ma se qualcuno cerca di conservare questo luogo, altri sembrano far di tutto per distruggerlo. Nel 1930 infatti viene costruita nel bel mezzo del campo un edificio con sala da tea e pompa di benzina; fortunatamente nel 1931 si forma “the National Trust of Scotland”, ovvero l’ente nazionale che cura i siti storici e culturali, che si batte per proteggere il Culloden Battlefield.

Grazie alla gentile donazione di parti di terreno fatta da proprietari terrieri si riusce a recuperare parte dell’antico campo di battaglia, anche se una grandissima parte rimane ancora in mano a privati. A seguito di scavi archeologici avvenuti nel 2004 nel 2005 si è scoperto che il centro visitatori sorgeva sulla seconda linea dell’esercito inglese, si è provveduto quindi a spostarlo e vista l’occasione a modernizzarlo con un interessante percorso che spiega le rivolte giacobite. Attraverso dei sentieri pedonali, oggi è possibile passeggiare per Culloden Moor e vedere l’esatta ubicazione delle linee giacobite e inglesi.

Mappa dello schieramento

Visitare questo luogo è un’esperienza davvero toccante: camminare su questo campo di battaglia dove tanti scozzesi hanno perso la loro vita per i loro ideali e per la loro libertà è un’emozione fortissima che raramente passa inosservata.

Ph by Me “Chicco porge omaggio al Clan Fraser”

Lady F.

April 16, 1746. The Battle of Culloden and the Highland Clearances

English Version

This date marks the beginning of one of the most painful periods in the history of Scotland.

Today I will take you into the 18th century a time marked by riots, rebellions, bloody battles and controversies that will end with the tragic Battle of Culloden that will change the community and infrastructure in the Highlands forever.

But let’s start from the beginning. It all starts with James VII (as they call him in Scotland) or James the Second (as he is known in England), the last Catholic monarch to rule the kingdoms of England, Scotland and Ireland. Following the invasion of his Protestant son-in-law and his removal from the throne, James is forced into exile in France. Viscount Henry Dundas, James’ most zealous Scottish supporter, rallies troops and initiates military action against William and Mary’s forces. Then the first Jacobite revolt broke out, but did not have much following. In 1707 the two kingdoms of Scotland and England were united to the dismay of those who supported the cause of James VIII or James III who tried to claim the throne twice in 1708 and in 1715. In 1719 the Jacobites found an ally in Spain. Having failed to persuade the French government to engage in another invasion, Prince Charles, called “the young pretender” or “Bonnie Prince Charlie,” decides to finance his insurrection. He sails from France to Scotland and arrives in the Outer Hebrides in July 1745 from which to leave to cross the Highlands and gather a Jacobin army. Not all clans, however, join the Jacobite cause and for this reason we cannot speak of a national rebellion; however, there were a lot of people who decided to join Bonnie Prince Charlie. With his army he marches south with the intention of entering London and the victories and successes of the Jacobite forces grow by the day. Charlie and his team first conquer Edinburgh and finally nearly 10,000 men arrive in Derby, not far from the English capital, but then the situation is reversed: slowly the morale of the troops begins to drop, thanks to a harsh winter, a lack of supplies and the distance from home. It is at this point that the most wrong decision is made which will mark all future moves. In fact, it is ordered to return to the north, in a very long march in the cold, in the snow, in the mud, under the constant attack of the British who are pushing the Jacobite army further and further north. We therefore arrive at the fateful battle on April 16, 1746 in a swampy moor called Culloden. An army of about 5400 Jacobins prepares for a brutal and inexorable confrontation with more than 8000 British soldiers. A real carnage for the Scottish side ends in a few hours: without any war council, in fact, the Jacobite troops are literally sent to meet their death. The Scots deployed on two lines, the cavalry less than 200 elements, on the sides and 12 old light guns in front of the troops. The British, on the other hand, can count on a much larger group of cavalry and also on more cannons and mortars. At noon, in the pouring rain, the government troops advance neatly on the battlefield and take up positions, the Scottish bagpipes begin to play challenged by English drumming; the small Jacobite cannons fire but cause no damage, on the contrary the strong Cumberland heavy artillery immediately breaks the Scottish lines which are however ordered to maintain their position. Bonnie Prince Charlie is too far away to see the damage done in the front lines and orders to attack.

Almost an hour later the Jacobite charge finally begins. The Scots had always used the charge as a battle tactic surprising the enemy and attacking him wildly, focusing on the speed that allowed them to reach the opposing lines receiving only a rifle charge or at most two before clashing hand to hand. A tactic that had almost always proved successful but not on this occasion: the vast open field, the extremely swampy terrain and the power of the enemy fire have the better of the speed, strength and ferocity of the Highlanders who advance in disorder and too slowly, being exposed to musket fire for too long. The battle is violent and brutal and ends as mentioned in just an hour. On the bloody field of Culloden lie about 1250 Jacobite dead and as many were wounded; 376 are taken prisoner. The British troops lose only 50 men and 300 are wounded at the end of the battle. The Duke of Cumberland orders to immediately exterminate all the dying wounded on the battlefield, to chase and kill the fugitives and not to spare even the civilians, women and children who offer help and shelter to the already jacobites defeated. Many of these are captured and taken to England, crammed into inhuman prisons and tortured, starved, humiliated, left to die of starvation.

They swore to fight and die for their handsome prince and so it happens.

Following the barbarism committed during and after the battle, the Duke of Cumberland was given the nickname of “butcher”.

936 Jacobites are deported to the American colonies or the West Indies; 120 are sentenced to death and 1287 are freed. Many others die in prison or at sea.

And Prince Charlie? He manages to escape by putting himself to safety following a long flight far and wide to Scotland and helped by Flora McDonald whose story you can know in my PodCast episode dedicated to her.

The famous popular song “the Skye Boat song” tells of this escape and how the prince managed to return to Rome where he will later die old, depressed and alcoholic.

Scotland comes out definitively vanquished and humiliated: independence lost, the Catholic Church brutally persecuted. In the following years in the Highlands the English government put in place a real attempt at total repression of the Scottish Gaelic culture and subjugation of the inhabitants. The intention is to break the will and pride of this people. First, it is necessary to dismantle the clan system and eliminate the symbol of Gaelic culture: kilts, tartan, bagpipes and the use of the Gaelic language are thus banned. The clans are dissolved and deprived of their properties, the names of people and places are anglicized and finally the so-called “clearances” are implemented: real ethnic cleansing that lasted approximately from 1750 to 1880. During these years many Scots are forced to abandon their homes to make room for sheep farming by emigrating to America by moving to the coast.

The site of the battle is entrusted to the loyalist Duncan, remaining property of the family for the next 150 years. In 1881, perhaps an heir of the previous Duncan, he built today’s Memorial Care and had the stones held in memory of the men who died in battle; the two ancient coats present on the field are also restored.

But if someone tries to keep this place, others seem to go out of their way to destroy it. In fact, in 1930 a building with a tea room and petrol pump was built in the middle of the field; Fortunately, in 1931 “the National Trust of Scotland” was formed, the national body that takes care of historical and cultural sites, which fights to protect the Culloden Battlefield.

Thanks to the kind donation of parts of land made by landowners, it was possible to recover part of the ancient battlefield, even if a very large part still remains in private hands. Following archaeological excavations that took place in 2004 in 2005 it was discovered that the visitor center stood on the second line of the English army, it was then moved and given the opportunity to modernize it with an interesting path that explains the Jacobite revolts. Through footpaths, it is now possible to stroll through Culloden Moor and see the exact location of the Jacobite and English lines.

Visiting this place is a truly touching experience: walking on this battlefield where so many Scots have lost their lives for their ideals and for their freedom is a very strong emotion that rarely goes unnoticed.

Lady F.

Quando una poltrona può fare la differenza

Non è solo una questione sessista.

Il video parla chiaro: Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Europea, è chiaramente sorpresa e infastidita dall’assenza di una poltrona per lei. Deve accomodarsi su un divano mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Consiglio UE Charles Michel hanno a disposizione due poltrone dorate con le rispettive bandiere alle spalle.

Una scena che raggela il sangue quella accaduta nella giornata di ieri, 7 aprile 2021, perché non solo rivela una maleducazione inaudita (ovviamente secondo i parametri occidentali), non è nemmeno solo maschilismo, bensì a mio parere ciò che è successo ad Ankara è un vero e proprio affronto alla libertà, al rispetto dei diritti e della civile convivenza.

Vedere chiaramente sfilarsi (letteralmente) da sotto il sedere ciò che per secoli è stato duramente conquistato avrebbe dovuto scatenare per lo meno un accenno di biasimo nei confronti della Turchia, nella persona di Erdogan, invece si è quasi fatto finta di nulla. Michel siede sulla sua bella poltrona e la von der Leyen li osserva dal suo divanetto.

Le dichiarazioni successive?

Se la Turchia si difende dicendo che ha seguito il protocollo e che la disposizione dei posti “è stata suggerita dalla parte europea prima dell’incontro”, il portavoce della commissione europea, Eric Mamer, risponde precisando che la Commissione “si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato” e che “saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro”. Sempre Mamer precisa che “il servizio del protocollo della Commissione non ha partecipato al viaggio per il Covid”.

Ci sono già state situazioni analoghe in cui l’incontro avveniva tra Erdogan e altre due persone, ma essendo tutti uomini in quel caso le poltrone erano tre senza nessun problema organizzativo.

Il presidente del Consiglio Michel e la stessa presindentessa della Commissione europea, sostengono che la situazione è stata deplorevole, ma che hanno scelto di non aggravarla con un incidente politico. La von der Leyen addirittura afferma di aver preferito dare priorità alle questioni di sostanza piuttosto che al protocollo.

Ecco, è qui che mi sale la rabbia.

Capisco la scelta di non voler avviare una guerra mondiale, ma penso che ci siano modi eleganti ed educati di manifestare la propria disapprovazione davanti ad una situazione incresciosa, anche perché non dire niente a volte non è segno di superiorità, bensì di debolezza. Ciò che è accaduto mostra il problema di asservimento che l’Europa ha nelle relazioni con la Turchia.

Non solo hanno mancato di rispetto alle donne e al ruolo che ricoprono nella cultura occidentale, ma non hanno nemmeno rispettato le istituzioni europee e questo doveva essere sottolineato, non sottovalutato.

Il presidente Michel ad esempio, una volta accortosi che c’erano solo due sedie avrebbe potuto cedere il suo posto alla presidentessa, oppure non sedersi finché non fosse arrivata una poltrona anche alla von der Leyen. La stessa presidentessa avrebbe potuto chiedere di avere una poltrona come le altre e rifiutarsi di sedersi lontana e in disparte.

Qualcuno potrebbe obiettare “eh ma se voi donne volete la parità perché Michel avrebbe dovuto cedere il suo posto?”

In primo luogo perché non è una questione di cavalleria/educazione, bensì di rispetto verso la gerarchia delle figure istituzionali: Ursula von der Leyen ricopre un ruolo più alto rispetto a Charles Michel e quindi se proprio dovevano esserci due sedie, sarebbe stata lei a doversi sedere (ammonizione quindi anche per il presidente Michel che sembra non dar peso a questo dettaglio)

E poi perché è chiaramente una provocazione di un uomo che ha dimostrato in più occasioni di avvalersi di un modello illiberale che schiaccia oppositori e minoranze, vedasi il fatto dei 50 mila militari mantenuti a Cipro, trattati internazionali e leggi infrante per fini economici, spazio marittimo tolto alla Grecia, la chiesa di Santa Sofia trasformata in moschea, ecc.; insomma un esempio di boria dittatoriale tipica del presidente turco.

Ciò che è successo ad Ankara nella giornata del 7 aprile 2021 non deve rimanere in sordina: l’affronto non è stato solo verso una donna, bensì verso una tipologia di cultura e società.

Riflettiamoci.

Lady F.

Donne e Videogiochi. La rivalsa delle Guerriere

Ph by Sara Castellani

È possibile trovare dei segnali di cambiamento anche nelle piccole cose?

Io dico di sì.

Sarà che mi esalto con un nonnulla, ma vedere l’aggiornamento di un gioco di mio figlio mi ha illuminato la giornata.

Non sono mai stata competente in campo di videogiochi, mi affascinano ma sono proprio negata. Il massino a cui sono arrivata sono stati “Tetris” e il fantastico “Snake” con cui giocavo con il cellulare Nokia nelle mie sedute in bagno (e chi nega di aver fatto la stessa cosa MENTE!).

Il mio ex-fidanzato aveva provato a introdurmi nel mondo di “Neverwinter Night” e ammetto di essermi appassionata parecchio: un videogioco di ruolo per pc basato sulle regole di Dungeons & Dragons (gioco di ruolo che già praticavamo una volta a settimana in compagnia di amici). Vi dico solo che ci sono stati momenti in cui io e il mio ex comunicavamo attraverso i nostri personaggi invece che scriverci sms o chiamarci… Decisamente altri tempi! In ogni caso per me era solo un (fin troppo travolgente) passatempo e quindi non andavo a cercare qualsiasi articolo scritto su questo gioco per trovare il modo di progredire di livello, avere quel potere piuttosto che quell’arma, ecc. Insomma, dopo circa uno o due mesi l’ho piantato là.

Come detto però i videogiochi mi affascinano, soprattutto se hanno della storia e del fantasy, e quindi quando mio figlio ha cominciato ad avere l’età per avere console o pc è capitato che mi mettessi ad osservarlo. Ho capito subito una cosa: se ero negata vent’anni fa immaginate quanto lo possa essere ora. ‘Na chiavica proprio! Derisa sia da mio marito che da mio figlio però non demordo e continuo quindi a seguire i giochi di Francesco, un po’ per controllare che siano sempre adatti alla sua capacità di distinguere la realtà dal gioco e di certo un po’ perché oggettivamente alcuni sono fatti bene. 

Con la pandemia e il primo lockdown poi mio padre e mio figlio hanno cominciato a giocare insieme in rete. Era il loro modo per stare insieme, visto quanto soffrivano il non potersi vedere, e ora ad un anno di distanza hanno ancora il loro appuntamento fisso due volte a settimana con il gioco “Age of Empire”

Questo è un videogioco strategico in tempo reale con ambientazione storica in cui si controlla una popolazione che deve progredire cercando di divenire forte economicamente e militarmente. 

“Tutto questo per dire cosa?” vi chiederete. 

Beh, da marzo al 14 aprile sarà possibile scaricare l’aggiornamento di questo gioco realizzato dalla community per permettere ai giocatori di cimentarsi in missioni dedicate o ispirate ad alcune grandi donne della storia medievale. Un grandissimo gesto questo che a mio parere mostra come lentamente anche le donne vengano prese in considerazione negli avvenimenti storici. 

Una cosa di cui si è parlato molto e io per prima con  il mio podcast lo dimostro, è sicuramente il fatto che la storia è stata scritta in gran parte da uomini e di conseguenza le figure femminili sono state ignorate o, addirittura, cancellate per non offuscare il potere patriarcale. Da un po’ di tempo a questa parte però, le cose stanno cambiando: sempre più storici parlano, scrivono e studiano di grandi donne che seppur rischiando molto hanno fatto sentire la loro voce. È un processo che richiederà ancora tempo, ma vedere come anche attraverso un videogioco questa nuova mentalità riesca a farsi spazio non può che riempirmi di gioia.

Ecco quindi che tra i grandi re e guerrieri citati nel gioco, mio figlio inizia a nominare Giovanna D’Arco, la pulzella d’Orleans che ha guidato i francesi nella guerra dei cent’anni incoronando Carlo VII di Francia; la  terribile regina etiope Yodit; Jimena Diaz, moglie di El Cid e difensora di Valencia dagli attacchi dell’emiro della Spagna islamica; Giacomina di Hainaut contessa d’Olanda, Zelanda e duchessa di Baviera; e per finire Sichelgaita di Salerno, principessa longobarda che durante la battaglia di Durazzo del 1081 combatté in prima persona armata di corazza venendo definita una “seconda Atena”. Insomma, direi niente male! Capite ora perché mi sono esaltata tanto? 

Trovo che l’iniziativa di Ensemble Studios e Microsoft davvero bella soprattutto nella spiegazione che ne danno:

“Nel corso degli echi del tempo, le donne hanno continuato a sfidare le aspettative e lasciare segni clamorosi nella storia. Questo mese, in onore della Giornata internazionale della donna e del Mese della storia della donna qui negli Stati Uniti, puntiamo i riflettori su parte di quella storia con un nuovo evento, diverse icone nuove di zecca, mod visive e altro ancora”

È risaputo che nel contesto videoludico i personaggi femminili siano particolarmente bistrattati, quindi intravedo in questa iniziativa una mano tesa verso le donne e verso il rispetto della loro storia. O almeno a me piace vederla così.

E voi cosa ne pensate?

Lady f.

ps: grazie ad Andrea Masetti per la soffiata e a Francesco Vitrani per la consulenza