Fuori la Voce!

Grazia n° 52 – 10 dicembre 2020

In un mondo in cui le proteste possono essere avviate comodamente da casa, ecco che da una piccola città tra i monti dell’Alto Adige una pedagogista, un nessuno nel mondo di Instagram con i suoi 1200 followers, è riuscita a far arrivare la sua voce fino alle orecchie di un giornale nazionale come “Grazia”.

Come è stato possibile?

Grazie alla diffusione e alla condivisione di persone fantastiche, per lo più donne con qualche bella sorpresa maschile.

Tutto è nato una mattina. Scorrevo le notizie dei vari giornali e mi soffermo su una in particolare che attira la mia attenzione. Il titolo mi coinvolge immediatamente: “Maestra di Torino licenziata dopo avere subito revenge porn”. Leggo l’articolo e scopro con orrore l’accaduto: una ragazza di 22 anni manda al fidanzato foto e video sessualmente espliciti; quando si lasciano lui invia questo materiale alla chat WhatsApp della sua squadra di calcetto. Comincia così la condivisione incontrollabile e in breve le immagini della ragazza si disperdono in rete fino ad arrivare all’attenzione della mamma di un bambino che frequenta la scuola in cui lavora la vittima (e ci tengo a sottolineare che è LA vittima) di revenge porn.

È forse scesa in campo per aiutarla? Certo che no. La mamma in questione va ad accusare il fatto alla direttrice della scuola, la quale licenzia la ragazza per comportamenti “non consoni per un’insegnante”.

Ecco, il sangue ha cominciato a ribollirmi nelle vene. Come coordinatrice di due strutture per l’infanzia ed ex insegnante non riesco a tollerare questa subdola ipocrisia.

Le maestre non fanno sesso secondo voi? Sì perché è questo il messaggio che si nasconde dietro a questo licenziamento.

Ma la ragazza non ha fatto altro che inviare foto e video intime al suo fidanzato per eccitarsi a vicenda, per stuzzicare la loro fantasia. Un gioco che in moltissimi al giorno d’oggi fanno.

Volgare, eccessivo, inappropriato? Forse, ma sicuramente INTIMO. E così doveva restare, non fosse che il fidanzato ha cominciato la condivisione. Quindi di chi è la colpa?

Ovviamente NON della ragazza. Dal 9 agosto 2019 esiste una legge, la n°69 che introduce in Italia il reato di Revenge Porn, con la denominazione di diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti. L’Art. 612 ter del diritto penale dice:

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.

La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

Attenzione. Anche chi riceve e ricondivide il materiale è perseguibile penalmente. E non ci sono giustificazioni come “Lo facevamo per goliardia!”

No, perché dietro alle risate (o peggio) con gli amici c’è una donna umiliata, additata e considerata una svergognata dall’opinione pubblica. Tanto da perdere il lavoro perché a detta di mamme e direttrice “Una maestra non si comporta così!”

Ma davvero? Nel 2020 siamo ancora fermi a questa convinzione puritana? Spudoratamente ipocrita tra l’altro considerando quanto la fantasia della maestra sexy sia ancora nella top ten di qualsiasi uomo (o donna). Possibile che non ci possano essere vie di mezzo? Possibile che nell’immaginario collettivo un’insegnate debba essere per forza o casta o puttana?

Da insegnante e coordinatrice pedagogica mi sono sentita in dovere di far sentire la mia voce, far conoscere la mia realtà: lavoro con i bambini, ma questo non fa, e NON DEVE fare di me un’illibata verginella.

Io non sono il mio lavoro, io svolgo un lavoro (come ripete sempre mia cugina Carol).

Posso essere un’insegnate eccellente e sensibile con i bambini e poi andare a casa e sfogarmi con il mio compagno nella “stanza dei giochi” nello stile di “Cinquanta Sfumature di Grigio”. Se avviene in modo consenziente tutto è lecito in amore e nel sesso. E alle persone che mi circondano questo non deve importare. Al lavoro devo essere giudicata per il mio operato non per la mia sfera intima e personale (estranea all’interazione con utenti, colleghi e spazi lavorativi). Stop.

Se poi la mia vita privata viene sbandierata ai quattro venti da un fidanzato imbecille e ignorante allora dovrei essere supportata ed aiutata, non giudicata e addirittura allontanata.

Anche perché le stesse persone che additano sono poi quelle che in privato vanno a cercare il video in rete. Lo sapete che nella settimana in cui è avvenuto il fatto della maestra di Torino, su “PornHub”, famoso sito di materiale pornografico, al primo posto nella casella di “RICERCA” c’era proprio “maestra di torino”? Questo dovrebbe aprire gli occhi puritani di molti.

Insomma la faccenda mi ha coinvolta talmente tanto che non ho saputo resistere. Dovevo fare qualcosa. Ho deciso di scattarmi una foto con un piccolo cartello di protesta e avviare una campagna con lo scopo di far sentire meno sola la ragazza vittima di tutto questo schifo.

“SONO PEDAGOGISTA E FACCIO SESSO #ANCHELEMAESTREFANNOSESSO”

Ho preparato un post per Instagram e Facebook taggando un po’ di giornali e personaggi influenti che so particolarmente attivi su queste tematiche e poi ho pubblicato.

La reazione è stata immediata.

Il post ha raggiunto le 1000 visualizzazioni e con mio enorme stupore sul n° 52 del 10 dicembre 2020 a pagina 85 compare in bella vista la foto del mio post.

Donne che hanno dato la loro solidarietà alla maestra torinese, vittima di Revenge Porn e licenziata per lo scandalo suscitato dalla diffusione delle sue foto nuda nella chat delle mamme della scuola

Questo dimostra quanto potente sia internet e quanto possa fungere da cassa di risonanza per far sentire la propria voce.

Dimostra anche che se le donne si uniscono per una causa possono arrivare lontane.

È un’arma a doppio taglio, certo, e il revenge porn ne è una dimostrazione.

Ma la colpa non è di internet. La colpa è solo di condivide illecitamente il materiale. Teniamolo bene a mente. Denunciamo. Facciamoci sentire!

QUI IL POST INSTAGRAM se te lo sei perso

World AIDS Day… e Linda Laubenstein

Il 1° dicembre il mondo intero celebra la Giornata contro l’AIDS e l’HIV. È in assoluto la prima giornata della salute divenuta una ricorrenza. Questo è positivo perché offre la possibilità di sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo al problema, raccogliere fondi per la ricerca, esprimere solidarietà verso le persone affette da questa sindrome e commemorare quelle che ne sono morte. Dal 1984, anno in cui è stata identificata la malattia, 35 milioni di persone sono morte. È una delle pandemie più distruttive della storia. Nel 2016 ancora 1,6 milioni di persone si sono ammalate di AIDS e questo perché nel mondo c’è ancora tanta, troppa ignoranza sul come fare prevenzione. Una battaglia cominciata nella prima metà degli anni ’80 da una grande donna, un medico: Linda Laubenstein.

Dr. Linda Laubenstein

Linda è nata nel 1947 a Boston, ma prima del suo quinto compleanno viene costretta ad utilizzare una sedia a rotelle a causa di un caso aggressivo di poliomielite. Nonostante ciò, si laurea alla New York University School of Medicine e diventa professore presso il New York University Medical Center nel 1978. Una sfida enorme nel mondo scientifico degli anni ‘70 considerato il suo essere donna e per di più disabile.

La svolta nella carriera di Linda arriva quando nel 1981 nel suo studio arriva un paziente che mostra i sintomi del sarcoma di Kaposi, un raro cancro della pelle che a quanto pare si sta diffondendo a macchia d’olio soprattutto nella comunità gay di New York. L’uomo ha 33 anni e malgrado la terapia farmacologica prescritta, muore in soli diciotto mesi con lesioni cutanee che ricoprivano tutto il corpo. Questa forma di cancro sembra causare il collasso del sistema immunitario, una cosa mai vista fino a quel momento. Assieme al suo collega, il dottor Alvin Friedman-Kien, Linda lavora instancabilmente per trovare il modo di finanziare la ricerca per questa violenta sindrome. Prevede l’enorme portata dell’AIDS e cerca di divulgare quello che ha appreso assistendo più di un quarto dei casi segnalati a livello nazionale. Organizza la prima conferenza medica su vasta scala e non smette mai di prendere a cuore tutti i suoi pazienti: fa loro visita al pronto soccorso in piena notte, utilizza l’autobus per andarli a trovare a casa e, quando muoiono, va ai loro funerali.

Non è tutto. Molti malati di AIDS perdono il lavoro per via dell’aggravarsi delle loro condizioni o per la discriminazione nei loro confronti. Linda allora, convinta che un impiego mantenga il benessere emotivo, apre un’organizzazione senza scopo di lucro con Jeffrey B. Greene chiamata Multitasking Services, dove gli impiegati sono tutti suoi pazienti.

Durante una delle campagne di divulgazione conosce il drammaturgo Larry Kramer. Dopo essersi presa cura del suo partner, Kramer decide di ricordarla affettuosamente basando su di lei il personaggio di Emma Brookner nella sua opera teatrale “The Normal Heart”.

Linda Laubenstein rifiuta di tacere di fronte alla negligenza dimostrata dal governo degli Stati Uniti che accusa di mancanza di azione ignorando la sofferenza della comunità gay. La discriminazione verso i malati affetti da questa sindrome è imbarazzante, molti medici si rifiutano di curarli e alle reazioni decisamente invadenti di Linda loro rispondono chiamandola “Puttana su Ruote”.

Linda non le manda a dire nemmeno alla Chiesa Cattolica: si dimostra infatti critica per il trattamento riservato a gay e lesbiche. Ma tutto questo fervore suscita polemiche anche tra gli attivisti gay. Sì, proprio coloro che lei difende. E questo perché Linda aveva capito che la malattia si trasmette sessualmente, ma ancora non aveva capito il metodo di prevenzione. Così spesso si trovava ad incitare la comunità gay all’astinenza, arrivando addirittura a chiedere la chiusura dei bagni per omosessuali per scoraggiare comportamenti non sicuri. Purtroppo questa richiesta viene vissuta dai diretti interessati come una negazione della loro natura, che pare ricacciarli in quel mondo di sotterfugi e silenzi in cui avevano vissuto fino a poco tempo prima.

Nel 1990 Linda si ammala gravemente, ha una combinazione di asma, insufficienza respiratoria e gastroenterite. Continua a lavorare senza sosta, ma il 15 agosto 1992 muore per un attacco cardiaco a soli 45 anni.

Ancora nel 2020 i numeri dei contagi sono troppo elevati, ma l’accesso alle terapie sta riducendo la trasmissione di circa il 97% soprattutto dalle madri ai bambini. Una crescita così significativa non avrebbe potuto avvenire senza il coraggio e la determinazione delle persone che convivono con l’AIDS e che lottano affinché i diritti delle persone colpite vengano rispettati. Ma soprattutto bisogna ringraziare Linda Laubenstein e con il Premio di Eccellenza Clinica dell’HIV a lei dedicato  si vuole sottolineare l’importanza di avere medici che “si distinguono per i loro modi compassionevoli e il loro coinvolgimento totale nello sforzo di fornire assistenza completa alle persone con HIV / AIDS”.

La giornata mondiale contro l’AIDS rappresenta così un’importante occasione per promuovere prevenzione e assistenza, combattere i pregiudizi e sollecitare i governi e la società civile affinché vengano destinate risorse appropriate per la cura e le campagne di informazione. La giornata è inoltre un’opportunità per raccogliere fondi e rimarcare la necessità di difendere i diritti delle persone che convivono con l’AIDS. 

Il nastro rosso è divenuto il simbolo di solidarietà verso le vittime di questa malattia dal 1991 e lo si indossa (o lo si mostra) anche e soprattutto durante questa giornata.

Film consigliato: “The Normal Heart” del 2014 con Mark Ruffalo, Matt Domer, Jim Parsons e Julia Roberts

Trailer ITALIANO

Artemisia Gentileschi. Una donna, una violenza e una società che non è ancora cambiata!

L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità. (Roberto Longhi)

Artemisia Gentileschi (QUI il mio episodio PodCast) è stata una delle prime pittrici (o pittora) di cui si è parlato. Un’icona del femminismo, ma soprattutto una donna messa alla prova dalla vita. La brutale esperienza di stupro, le torture fisiche e psicologiche che ha subìto non l’hanno fermata, piegata forse, ma non spezzata. Artemisia è andata avanti e ha trasportato nell’arte il suo dolore, la sua voglia di riscatto e la sua rivoluzionaria rappresentazione della donna, conquistandosi un posto d’onore nella storia come pittrice e come donna.

La vita di Artemisia mi spinge a fare una riflessione perché, se ci soffermiamo a pensare, oltre a lasciarci una meravigliosa eredità artistica, la sua esperienza ci offre l’opportunità di sensibilizzare la società verso le vittime di stupro. Ci troviamo infatti davanti ad uno specchio che mostra quello che ancora oggi le donne devono subire.

Se una donna denuncia una violenza, e dico “se” e non “quando” perché purtroppo si denuncia ancora troppo poco, quello che subisce è una vera e propria gogna psicologica (e mediatica). Viene sommersa da domande irriverenti, fuori luogo, zeppe di preconcetti che sono ancora radicati nel pensiero comune. Come se non fosse già difficile rivivere più e più volte il trauma subìto, devono sentirsi chiedere “Com’eri vestita? Perché eri in quel luogo a quell’ora?” oppure ancora “Cosa hai fatto per istigarlo?”. Le testate giornalistiche poi non sono da meno offrendo una narrazione che spesso (troppo) cerca una giustificazione per il carnefice sottintendendo una qualche colpa della vittima, facendola sentire sporca e quasi obbligata a vergognarsi.

Artemisia è stata letteralmente torturata durante il processo avviato dopo la denuncia di suo padre contro il pittore Agostino Tassi, suo maestro. Viene sottoposta a numerose visite ginecologiche, il suo corpo è esposto alla curiosità morbosa della società costantemente aggiornata da un notaio che prendeva atto di tutta la vicenda. Decretano infine che l’imene della donna è stato lacerato tempo addietro confermando così lo stupro. Ma non contenti, le autorità giudiziarie vogliono un’ulteriore conferma e sottopongono quindi Artemisia ad un interrogatorio con il supplizio della “sibilla”, ovvero legano i pollici con delle cordicelle sottili che con l’ausilio di una specie di manganello vengono girate intorno alle dita stritolando le falangi. Oltre al dolore fisico oggettivo, bisogna pensare quanto questa tortura avrebbe inciso sulla carriera di pittrice della donna. Artemisia non cede, confermando sempre la sua deposizione e nel 1612 le autorità condannano Agostino Tassi che però non pagherà mai del tutto la sua pena grazie al supporto dei suoi potenti committenti. Chi pagherà di più tutta questa faccenda sarà invece Artemisia che vede la sua reputazione minata. “Una puttana bugiarda che va a letto con tutti” ecco ciò che si dice di lei tra le strade di Roma.

Stiamo parlando del XVII secolo. Ma quanto di ciò che ha vissuto Artemisia si allontana da vicende di cui sentiamo parlare ancora nel 2020?

Prendiamo per esempio il caso Genovese. Ciò che si è letto sono state cose come “era un pilastro dell’economia!”, “Un uomo di successo”, “Grande lavoratore!”. Ecco, una premessa narratoria che si focalizza sul “presunto” colpevole (vedremo come andrà il processo) cercando di valorizzare i suoi lati postivi. Le parole verso la vittima invece sono tutt’altro che lusinghiera. Tra tutti gli articoli scritti a riguardo, cito quello di Vittorio Feltri in cui l’illustre giornalista, famoso per essere quello sempre controcorrente, ovviamente non giustifica l’imprenditore, ma cade in una vecchia (antica direi) idea prettamente maschile in cui una donna se viene violentata è perché in un qualche modo se l’è andata a cercare. Feltri scrive sostanzialmente che la ragazza, se ha accettato di andare al festino nella villa dell’imprenditore, e se ha accettato di entrare nella sua camera da letto, doveva sapere che poi si dovevano calare le mutandine.

Ma davvero? E io che pensavo che una ragazza (donna, o chiunque) potesse decidere di fare sesso solo ed esclusivamente quando vuole farlo!!!

Uscire con una persona, magari entrare anche in casa sua, essere vestita in modo provocante, non sono cose che dovrebbero sottintendere “Fai tutto quello che vuoi con me!”; eppure in molti lo credono. Soprattutto la società, ancora troppo legata a preconcetti sessisti, giudica con questi parametri.

Quindi ecco che la ragazza violentata dovrebbe assumersi metà della colpa perché, sintetizzando, la colpa di Genovese è quella di condurre una vita da “depravato”, di essere un drogato e consumatore di cocaina e forse alcolizzato. Ecco che allora si vuole intendere che un soggetto così non poteva fare altro che violentare una ragazza. Quindi la colpa non è dell’uomo, ma del suo tenore di vita! Vedete come si dissocia la colpa dalla persona? Ma non è così e non dev’essere così.

Niente deve giustificare una violenza. L’uso della droga non può in alcun modo essere una giustificazione o un’attenuante. Ma neppure una aggravante. Allontaniamo il moralismo e focalizziamoci sul cambiamento.

Impariamo ad utilizzare una narrazione meno sessista e più inclusiva in cui uomini e donne non subiscano discriminazioni. Dove non esiste genere, ma solo umanità.

Non permettiamo che il XVII secolo di Artemisia e le sue torture continuino a mutilare le donne di oggi… e del futuro.

fRa’

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“Bastava Chiedere!”

Quante volte ce lo siamo sentite dire dal nostro partner? E quanto ci ha fatto innervosire?

Possibile che tutto debba dipendere da noi?

Possibile che perfino durante la chemioterapia io mi trovassi a pensare se a casa fosse tutto a posto? Se mio marito avesse pensato a preparare la merenda a mio figlio? Se si fosse ricordato di far ripassare la poesia a Francesco prima di andare a scuola?

E attenzione, mio marito è un uomo che mi aiuta molto nella gestione della casa e… SBAGLIATO!!!!! Ho appena fatto un errore enorme! Un errore che facciamo in molte!

Rileggete la frase che ho scritto: “mio marito è un uomo che mi aiuta molto […]”

Nooooo! non mi deve AIUTARE, deve CONDIVIDERE la gestione della casa! Una sottile differenza ma che esprime un concetto enorme! La casa è di entrambi, la famiglia è di entrambi, entrambi lavoriamo, quindi… la responsabilità è di entrambi!

Semplice no? La risposta è sì, ma no.

Non mi credete? Allora leggete “Bastava chiedere!” di Emma con introduzione di Michela Murgia e scoprirete quanto sulle donne gravi il concetto di carico mentale, ovvero quel “processo per cui si chiede alle donne di complicarsi la vita per semplificare quella di cui amano”.

QUI il link per acquistarlo, non te ne pentirai!

Rivalità tra donne. Sfatiamo un mito, vi va?

“Tu pensi che non la vorrei attaccare al muro ogni singola volta che la vedo avvicinarsi a lui?” (Anna Bolena/Elanor vs Jane Seymour in “Io. Anna”)

Nel mio romanzo “Io.Anna“ le due famose rivali, Anna Bolena e Jane Seymour, formano una particolare alleanza per una finalità comune: l’amore per il re!
Nella realtà sappiamo che le due donne si odiavano, ma la rivalità in quel caso era dettata dalle pressioni che ricevevano dalle loro famiglie; dal prestigio che l’essere la moglie di Enrico VIII portava.

Al giorno d’oggi si può parlare ancora di questo tipo di rivalità?
Io credo di sì.
O meglio, credo che in fondo, ancora nel XXI secolo la rivalità sia dettata dalle pressioni che noi donne subiamo dalla società. Solo che il “premio” questa volta non è un re come Enrico VIII.

Osserviamo bene: la fama, i followers, i soldi e le mille agevolazioni che un’influencer ottiene facendo a spallate con la “concorrenza” non sono forse l’equivalente del prestigio che una donna nel XVI secolo otteneva sposando il re?

Ebbene sì, INFLUENCER is the NEW QUEEN.

Ora, con questo non voglio dire che le influencer siano delle insensibili arriviste che non guardano in faccia nessuno. Per carità. L’associazione che faccio è per la pressione che subiscono per riuscire ad essere sempre al top. La stessa che ha subito Anna Bolena da suo padre e suo zio quando doveva scalzare Caterina D’Aragona e la stessa che ha ricevuto Jane dopo di lei (e via dicendo perché la storia è colma di vicende del genere).

Ma sapete una cosa? La società siamo NOI. Quindi se questo ci inorridisce dobbiamo cominciare a parlarne cercando di cambiare!

Quindi, ecco cosa ho scritto a Felicia Kingsley in risposta alla sua stories in cui era allibita del fatto che in un giornale con target femminile si andasse ad alimentare l’idea che la gravidanza sia una gara (vedi sotto):

“A volte mi domando se viviamo in un XXI secolo alternativo… perché non posso credere che ci sia ancora così tanta medievalità”.

È la società ad essere ancora radicata in un sessismo, nemmeno tanto velato, che alimenta la rivalità tra donne.

Ma è ora di sfatare questo mito e portare anche esempi positivi. Sempre come ho scritto a Felicia: “il fatto stesso che io e te siamo qui a parlarne e a confrontarci mi fa sperare…
il supporto e la comprensione tra donne ha speranza e prima o poi, lentamente magari, arriveremo ad abbattere anche questo muro. La storia ci insegna che di conquiste noi donne ne abbiamo fatte: possono solo rallentarci ma mai fermarci!”

Per sostenere questa mia tesi voglio raccontarvi una cosa.

Nel corso della mia vita e nell’ultimo anno soprattutto, ho visto quanto le donne siano capaci di comprensione, sostegno e affetto.

Siamo cresciute con la convinzione che la rivalità tra donne sia normale. Certo, siamo cresciute con esempi come: Cenerentola e le sorellastre, Grimilde e Biancaneve, Rapunzel e Madre Gothel… ma questa non è rivalità, questi sono esempi di invidia pura e semplice.

E se la rivalità può essere anche positiva se offre lo stimolo a migliorarsi, l’invidia invece ti consuma. Ed è quella che la società alimenta.

Ma io ho affrontato una malattia prettamente femminile e quindi mi sono ritrovata a conoscere donne fantastiche di ogni tipo: differenti per età, cultura, e ceto sociale.

Beh, lasciate che ve lo dica: di fronte alla paura della malattia, alla testa rapata e alla camiciola d’ospedale ho capito che in fondo siamo tutte uguali: lottiamo per la nostra vita, i nostri affetti… per vedere i nostri figli crescere o per realizzare qualcosa che abbiamo sempre rimandato pensando “ora non ho tempo, ma lo farò più avanti!”

E, inaspettatamente rispetto a quello che mostra la società, ci sosteniamo. Che sia una chiacchierata durante la chemio, un abbraccio dopo l’esito delle analisi del sangue prima della terapia, l’applauso dopo rimozione del PICC, o lo scambio infinito di messaggi su come affrontare l’ennesimo effetto collaterale dei farmaci.

Insomma, esattamente come dice George R.R. Martin “Quando la neve cade e i venti bianchi soffiano, il lupo solitario muore, ma il branco sopravvive”

…noi donne siamo lupi e, se vogliamo, formiamo un branco meraviglioso!

Benvenuti nel restyle del mio sito!

Mi sento come se avessi ristrutturato casa e avessi voglia di invitarvi tutti a vederla!

Prego signori, entrate pure! Ho fatto le pulizie, ho riordinato tutto e ora sono pronta a ricevere i miei ospiti.

Come nei migliori restauri, mi sono affidata ad una squadra davvero speciale, paziente e comprensiva. La scelta dell’ “architetto” è andata senza indugi verso la mia social guru Valeria Crivellari, meglio conosciuta come Mama Non Mama che in una mattinata mi ha arricchita di un’infinità di nozioni per me davvero illuminanti (ammetto di essermi sentita più volte come mia madre quando durante le mie spiegazioni di qualche funzione del suo smartphone…). Mi ha aperto un mondo che spero di riuscire ad approfondire imparandone tutte le potenzialità. A fare la cosiddetta manovalanza è venuto in mio soccorso mio marito Matteo, reduce anche lui dell’avvio di un suo blog molto tecnico (su sviluppi di nuovi modelli di business) e quindi fresco di capacità tecniche di creazione di siti. Tutto questo unito alla mia insonnia cronica che ho sfruttato per mettere in pratica ciò che Valeria mi ha insegnato, et voilà: ecco il mio nuovo sito.

Venite, vi faccio fare il giro della casa!

Nell’atrio troverete tutti i miei articoli, dal più recente fino al più vecchio che risale ormai a marzo 2017 (se volete fare più velocemente potete vedere l’archivio sulla destra).

Il corridoio principale vi permette di entrare in tutte le “stanze”. C’è ABOUT ME dove mi presento raccontandovi la mia formazione e le mie passioni. Qui troverete anche una piccola nicchia in cui vi racconto l’esperienza che ho vissuto durante la mia battaglia contro un tumore al seno. Niente di strappalacrime e che cerca compatimento, state tranquilli, semplicemente una condivisione che spero possa aiutare chi si trova nel bel mezzo della battaglia ma anche chi gli è vicino.

Proseguendo per la mia nuova casa troverete la presentazione del mio primo romanzo “Io. Anna” e anche del mio progetto di farne una trilogia.

L’ultima stanza, “Pillole di…” racchiude invece due mie rubriche:

  • “A SPASSO CON I TUDOR”. VIDEO. Nata da poco per caso, sembra piacere molto. Racchiude video in cui racconto di personaggi della casata dei Tudor o che ne hanno a che fare
  • “Storie di Donne nella Storia”. PODCAST. Per ora troverete solo la presentazione del progetto, ma presto sarà pronta il primo episodio. Qui narrerò le vicende di donne importanti per la storia che però spesso sono state nell’ombra.

Ecco, il giro per ora finisce qui.

Spero che la mia casa vi piaccia e sarei davvero felice se mi veniste a trovare spesso. La porta è sempre aperta e troverete sempre qualcosa ad accogliervi.

A presto

fRa’