Artemisia Gentileschi. Una donna, una violenza e una società che non è ancora cambiata!

L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità. (Roberto Longhi)

Artemisia Gentileschi (QUI il mio episodio PodCast) è stata una delle prime pittrici (o pittora) di cui si è parlato. Un’icona del femminismo, ma soprattutto una donna messa alla prova dalla vita. La brutale esperienza di stupro, le torture fisiche e psicologiche che ha subìto non l’hanno fermata, piegata forse, ma non spezzata. Artemisia è andata avanti e ha trasportato nell’arte il suo dolore, la sua voglia di riscatto e la sua rivoluzionaria rappresentazione della donna, conquistandosi un posto d’onore nella storia come pittrice e come donna.

La vita di Artemisia mi spinge a fare una riflessione perché, se ci soffermiamo a pensare, oltre a lasciarci una meravigliosa eredità artistica, la sua esperienza ci offre l’opportunità di sensibilizzare la società verso le vittime di stupro. Ci troviamo infatti davanti ad uno specchio che mostra quello che ancora oggi le donne devono subire.

Se una donna denuncia una violenza, e dico “se” e non “quando” perché purtroppo si denuncia ancora troppo poco, quello che subisce è una vera e propria gogna psicologica (e mediatica). Viene sommersa da domande irriverenti, fuori luogo, zeppe di preconcetti che sono ancora radicati nel pensiero comune. Come se non fosse già difficile rivivere più e più volte il trauma subìto, devono sentirsi chiedere “Com’eri vestita? Perché eri in quel luogo a quell’ora?” oppure ancora “Cosa hai fatto per istigarlo?”. Le testate giornalistiche poi non sono da meno offrendo una narrazione che spesso (troppo) cerca una giustificazione per il carnefice sottintendendo una qualche colpa della vittima, facendola sentire sporca e quasi obbligata a vergognarsi.

Artemisia è stata letteralmente torturata durante il processo avviato dopo la denuncia di suo padre contro il pittore Agostino Tassi, suo maestro. Viene sottoposta a numerose visite ginecologiche, il suo corpo è esposto alla curiosità morbosa della società costantemente aggiornata da un notaio che prendeva atto di tutta la vicenda. Decretano infine che l’imene della donna è stato lacerato tempo addietro confermando così lo stupro. Ma non contenti, le autorità giudiziarie vogliono un’ulteriore conferma e sottopongono quindi Artemisia ad un interrogatorio con il supplizio della “sibilla”, ovvero legano i pollici con delle cordicelle sottili che con l’ausilio di una specie di manganello vengono girate intorno alle dita stritolando le falangi. Oltre al dolore fisico oggettivo, bisogna pensare quanto questa tortura avrebbe inciso sulla carriera di pittrice della donna. Artemisia non cede, confermando sempre la sua deposizione e nel 1612 le autorità condannano Agostino Tassi che però non pagherà mai del tutto la sua pena grazie al supporto dei suoi potenti committenti. Chi pagherà di più tutta questa faccenda sarà invece Artemisia che vede la sua reputazione minata. “Una puttana bugiarda che va a letto con tutti” ecco ciò che si dice di lei tra le strade di Roma.

Stiamo parlando del XVII secolo. Ma quanto di ciò che ha vissuto Artemisia si allontana da vicende di cui sentiamo parlare ancora nel 2020?

Prendiamo per esempio il caso Genovese. Ciò che si è letto sono state cose come “era un pilastro dell’economia!”, “Un uomo di successo”, “Grande lavoratore!”. Ecco, una premessa narratoria che si focalizza sul “presunto” colpevole (vedremo come andrà il processo) cercando di valorizzare i suoi lati postivi. Le parole verso la vittima invece sono tutt’altro che lusinghiera. Tra tutti gli articoli scritti a riguardo, cito quello di Vittorio Feltri in cui l’illustre giornalista, famoso per essere quello sempre controcorrente, ovviamente non giustifica l’imprenditore, ma cade in una vecchia (antica direi) idea prettamente maschile in cui una donna se viene violentata è perché in un qualche modo se l’è andata a cercare. Feltri scrive sostanzialmente che la ragazza, se ha accettato di andare al festino nella villa dell’imprenditore, e se ha accettato di entrare nella sua camera da letto, doveva sapere che poi si dovevano calare le mutandine.

Ma davvero? E io che pensavo che una ragazza (donna, o chiunque) potesse decidere di fare sesso solo ed esclusivamente quando vuole farlo!!!

Uscire con una persona, magari entrare anche in casa sua, essere vestita in modo provocante, non sono cose che dovrebbero sottintendere “Fai tutto quello che vuoi con me!”; eppure in molti lo credono. Soprattutto la società, ancora troppo legata a preconcetti sessisti, giudica con questi parametri.

Quindi ecco che la ragazza violentata dovrebbe assumersi metà della colpa perché, sintetizzando, la colpa di Genovese è quella di condurre una vita da “depravato”, di essere un drogato e consumatore di cocaina e forse alcolizzato. Ecco che allora si vuole intendere che un soggetto così non poteva fare altro che violentare una ragazza. Quindi la colpa non è dell’uomo, ma del suo tenore di vita! Vedete come si dissocia la colpa dalla persona? Ma non è così e non dev’essere così.

Niente deve giustificare una violenza. L’uso della droga non può in alcun modo essere una giustificazione o un’attenuante. Ma neppure una aggravante. Allontaniamo il moralismo e focalizziamoci sul cambiamento.

Impariamo ad utilizzare una narrazione meno sessista e più inclusiva in cui uomini e donne non subiscano discriminazioni. Dove non esiste genere, ma solo umanità.

Non permettiamo che il XVII secolo di Artemisia e le sue torture continuino a mutilare le donne di oggi… e del futuro.

fRa’

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