La Cultura dello Stupro (for Dummies)

Il caso del figlio di Beppe Grillo, Ciro, indagato insieme ad altri 3 ragazzi di stupro di gruppo è sulla bocca di tutti da giorni. Questo perché il famoso genitore ha divulgato tramite social un video estremamente concitato (e decisamente polemico) in cui difende il figlio e gli amici girando la frittata e trasformando la vittima in una bugiarda.

Non mi soffermerò sul caso specifico perché non mi sento sufficientemente preparata in materia legale per analizzare da quel punto di vista la storia, inoltre le indagini sono in atto e chi di dovere sta già compiendo il suo.

Quello che voglio fare oggi è andare al nocciolo della questione. In un mondo apparentemente (molto apparentemente) paritario, esiste ancora un alone enorme di cultura patriarcale per cui quando viene denunciato uno stupro gira che ti rigira la colpa sembra sempre essere della donna.

Esistono manuali “for dummies” (per novellini-incapaci-negati) di qualsiasi cosa. Bene, io ora ne farò uno in formato bignami sulla cultura dello stupro, conosciuto nel web nella sua versione inglese Rape Culture.

Che cos’è la Rape Culture?

Iniziamo con una semplice definizione.

La cultura dello stupro è un termine utilizzato per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono prassi comune[1], ma che soprattutto sono supportati da atteggiamenti che normalizzano, minimizzano e addirittura incoraggiano la violenza sulle donne.

L’origine di questa espressione lessicale non è certa. Quello che si sa è che la prima a parlarne, negli anni Settanta, è stata la produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus che nel documentario “Rape Culture”, appunto, affronta il tema della rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e in generale nelle arti.

Tutto chiaro fino a qui? Immagino che la definizione in sé inorridisca solo leggendola. Sono sicura che se andaste per la strada a chiedere alla gente se in Italia questa sia una cultura presente, in molti, soprattutto con un’età dai 45 anni in su, risponderebbero “Assolutamente no. È un paese civilizzati il nostro!”

Eppure il 31,5 % delle donne con età compresa tra i 16 e i 70 anni nel corso della loro vita ha subìto almeno una violenza sessuale[2]. Il 31,5%.

E pensate un po’, sapete perché la gente malgrado questo dato pensa che in Italia non ci sia una cultura dello stupro? Perché in questo 31,5% di donne che hanno subito violenza, il 78% delle vittime non si è rivolto a nessuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati.

Perché?

Eccolo il punto: paura, vergogna e molto altro.

Qui devo riportare un altro termine: VICTIM BLAMING ovvero traslare la colpevolezza sulla vittima (allarme Grillo attivato!), minando quindi la sua credibilità.

Una donna tendenzialmente non denuncia perché teme di rimanere vittima anche di Victim Blaming. Chiarisco subito, è pur sempre un manuale per Dummies no?

Nel momento in cui una donna trova il coraggio e la forza di denunciare ecco cosa succede: le numerose falle nel sistema giuridico, ma soprattutto, talvolta, la mancanza di sensibilità ed empatia nei contesti in cui la vittima si ritrova al momento della denuncia, fanno sì che si inneschi quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria. La vittima “subisce” una serie di domande, chiarimenti, e richieste di dettagli (talvolta superflui) che riportano, facendola rivivere, alla violenza subita. Tutto questo perché il “ragionevole dubbio” viene applicato nei confronti della credibilità della vittima non sulla colpevolezza dello stupratore. Una sottile differenza che se analizzata bene non è poi così sottile: queste domande vogliono in realtà cercare una qualche incoerenza nella narrazione della vittima. Vogliono “fregarla” detta in parole povere!

Ecco quindi tornare il nostro argomento principale: la cultura dello stupro. Purtroppo i pregiudizi sessisti sono ancora insiti nella nostra cultura e se questi sono presenti in chi per primo assiste le vittime di violenza di genere il risultato è che chi denuncia ne esce martoriato.

Michela Murgia spiega il fenomeno su Repubblica dicendo che «il consenso tra adulti esiste se le persone fanno un patto su termini condivisi», aggiungendo «Per un meccanismo sociale che si chiama cultura dello stupro – quella secondo la quale la violenza è sexy e la sessualità è violenta – in Italia avviene l’esatto opposto: il consenso femminile ai rapporti sessuali è considerato implicito anche in assenza di disaccordo. Se non dici no, allora è già sì».

Arriviamo ad esempi concreti. Volete delle frasi tipiche di quando si viene a sapere che una donna è stata stuprata? Eccovele: “Sono solamente ragazzi”, “stavano giocando”, ma poi lei “indossava una gonna troppo corta”, “era ubriaca”, “se l’è cercata”, “Se vai in giro da sola cosa ti aspetti?”. Queste sono solo alcune (le prime che mi sono venute in mente) e anche questo atteggiamento ha un nome specifico: Slut Shaming, cioè la pratica di stigmatizzare comportamenti e desideri sessuali della donna considerandoli sfacciatamente volgari, inappropriati o provocanti[3]. E attenzione, questa non è una pratica prettamente maschile, no, a volte sono proprio le donne a dire frasi del genere. Sì perché la Rape Culture, come detto, fa parte di una cultura patriarcale da cui ancora non siamo riusciti ad allontanarci del tutto. È comprensibile, non è facile accettare che stupri ed abusi sessuali non siano solo casi eclatanti e straordinari, bensì parte integrante di un invisibile quanto concreto sistema sociale, culturale e ideologico.

Torno ora al concetto di “Rape Culture” ma soprattutto alle sue origini, non della denominazione, bensì dell’atto stesso dello stupro.

Nel 1975 l’attivista Susan Brownmiller esprime il PARADIGMA DELLA CULTURA DELLO STUPRO. Nel suo libro “Against Our Will: Men, Women and Rape” è chiara la sua visione per cui lo stupro sia “un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”. Quello che affascina nello studio della Brownmiller è che ritiene che il fenomeno dello stupro non sia legato all’immoralità degli uomini che cercano gratificazione sessuale, bensì è un’invenzione dell’uomo per mantenere un sistema di dominio psicologico sulle donne. Vi cito un passaggio:

“L’ingresso forzato di lui nel corpo di lei, nonostante le proteste e le lotte fisiche di lei, divenne il veicolo della conquista vittoriosa sulla vita di lei, la prova ultima della forza superiore di lui, il trionfo della sua virilità. La scoperta da parte dell’uomo che i suoi genitali possono servire come arma per generare paura deve essere considerata una delle scoperte più importanti nell’epoca preistorica, insieme all’uso del fuoco e alla prima ascia di pietra grezza.”

In pratica un atto di potere e di controllo. Bisogna assolutamente far passare il messaggio che “ammettere che lo stupro è radicato nei desideri umani in realtà equivale a un incitamento allo stupro[4]

Il RAINN (Rape, Abuse & Incest National Network), una delle principali organizzazioni del Nord America contro la violenza sessuale, non è del tutto d’accordo. In un rapporto infatti sostiene che lo stupro “è il prodotto di individui che hanno deciso di ignorare il messaggio culturale travolgente secondo cui lo stupro è sbagliato” e ancora “la tendenza a concentrarsi su fattori culturali che presumibilmente condonano o normalizzano lo stupro ha l’effetto paradossale di rendere più difficile fermare la violenza sessuale, poiché rimuove l’attenzione dall’individuo in errore, e apparentemente attenua la responsabilità personale delle proprie azioni”.

Il dibattito è ancora aperto e penso lo sarà ancora per molto, ma interessante è ciò che ha detto la giornalista britannica Laurie Penny: “nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle pratiche femministe più importanti degli ultimi tempi, ma anche una delle più discusse e fraintese”.

Infine, voglio ricordare e sottolineare mille volte che la Rape Culture, come dice Laurie Penny , non descrive necessariamente una società dove lo stupro è routine, attenzione: “la cultura dello stupro descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzate e giustificate aspettandosi che le donne vivano nella paura.”[5]

Visto che ho presentato questo articolo come un mio tentativo di divulgare in modo semplice il concetto di Rape Culture, provvedo a lasciare di seguito un piccolo glossario da tenere a mente in futuro, quando sentirete o leggerete dello stupro o violenza subìto da una donna.

  • Cultura dello stupro/Rape Culture: Per gli studi di genere e la sociologia include tutti quegli atteggiamenti che tendono a giustificare e normalizzare la violenza sessuale subita dalle donne
  • Slut Shaming (stigma della puttana): termine definire l’atto di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si discostino dalle aspettative di genere tradizionali 
  • Victim Blaming (colpevolizzazione della vittima): atto che ritiene la vittima responsabile del crimine che ha subìto e denunciato portandola ad autocolpevolizzarsi.

Cocludo ricordando una cosa importante:

«Non è necessario aver subìto uno stupro per subire le conseguenze della cultura dello stupro. Non è necessario essere uno stupratore seriale per perpetuare la cultura dello stupro. Non è necessario essere un convinto misogino per beneficiare della cultura dello stupro».

immagine presa dal profilo IG di Repubblica

Grazie al cielo esistono uomini come Michele Dal Forno, un ragazzo di 21 anni che per aiutare una ragazza in difficoltà è stato aggredito con una coltellata che gli ha sfregiato il viso. Mi viene da dire, “Per ogni Beppe Grillo dovrebbero esserci almeno 10 Michele Dal Forno”.

Lady F.


[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_dello_stupro

[2] Dati ISTAT https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza

[3] https://www.wired.it/attualita/media/2021/04/21/rape-culture-cultura-dello-stupro-cos-e/?refresh_ce=

[4] C. Brown Travis, Evolution, Gender, and Rape

[5] https://longreads.com/2017/10/10/the-horizon-of-desire/

Quando una poltrona può fare la differenza

Non è solo una questione sessista.

Il video parla chiaro: Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Europea, è chiaramente sorpresa e infastidita dall’assenza di una poltrona per lei. Deve accomodarsi su un divano mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Consiglio UE Charles Michel hanno a disposizione due poltrone dorate con le rispettive bandiere alle spalle.

Una scena che raggela il sangue quella accaduta nella giornata di ieri, 7 aprile 2021, perché non solo rivela una maleducazione inaudita (ovviamente secondo i parametri occidentali), non è nemmeno solo maschilismo, bensì a mio parere ciò che è successo ad Ankara è un vero e proprio affronto alla libertà, al rispetto dei diritti e della civile convivenza.

Vedere chiaramente sfilarsi (letteralmente) da sotto il sedere ciò che per secoli è stato duramente conquistato avrebbe dovuto scatenare per lo meno un accenno di biasimo nei confronti della Turchia, nella persona di Erdogan, invece si è quasi fatto finta di nulla. Michel siede sulla sua bella poltrona e la von der Leyen li osserva dal suo divanetto.

Le dichiarazioni successive?

Se la Turchia si difende dicendo che ha seguito il protocollo e che la disposizione dei posti “è stata suggerita dalla parte europea prima dell’incontro”, il portavoce della commissione europea, Eric Mamer, risponde precisando che la Commissione “si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato” e che “saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro”. Sempre Mamer precisa che “il servizio del protocollo della Commissione non ha partecipato al viaggio per il Covid”.

Ci sono già state situazioni analoghe in cui l’incontro avveniva tra Erdogan e altre due persone, ma essendo tutti uomini in quel caso le poltrone erano tre senza nessun problema organizzativo.

Il presidente del Consiglio Michel e la stessa presindentessa della Commissione europea, sostengono che la situazione è stata deplorevole, ma che hanno scelto di non aggravarla con un incidente politico. La von der Leyen addirittura afferma di aver preferito dare priorità alle questioni di sostanza piuttosto che al protocollo.

Ecco, è qui che mi sale la rabbia.

Capisco la scelta di non voler avviare una guerra mondiale, ma penso che ci siano modi eleganti ed educati di manifestare la propria disapprovazione davanti ad una situazione incresciosa, anche perché non dire niente a volte non è segno di superiorità, bensì di debolezza. Ciò che è accaduto mostra il problema di asservimento che l’Europa ha nelle relazioni con la Turchia.

Non solo hanno mancato di rispetto alle donne e al ruolo che ricoprono nella cultura occidentale, ma non hanno nemmeno rispettato le istituzioni europee e questo doveva essere sottolineato, non sottovalutato.

Il presidente Michel ad esempio, una volta accortosi che c’erano solo due sedie avrebbe potuto cedere il suo posto alla presidentessa, oppure non sedersi finché non fosse arrivata una poltrona anche alla von der Leyen. La stessa presidentessa avrebbe potuto chiedere di avere una poltrona come le altre e rifiutarsi di sedersi lontana e in disparte.

Qualcuno potrebbe obiettare “eh ma se voi donne volete la parità perché Michel avrebbe dovuto cedere il suo posto?”

In primo luogo perché non è una questione di cavalleria/educazione, bensì di rispetto verso la gerarchia delle figure istituzionali: Ursula von der Leyen ricopre un ruolo più alto rispetto a Charles Michel e quindi se proprio dovevano esserci due sedie, sarebbe stata lei a doversi sedere (ammonizione quindi anche per il presidente Michel che sembra non dar peso a questo dettaglio)

E poi perché è chiaramente una provocazione di un uomo che ha dimostrato in più occasioni di avvalersi di un modello illiberale che schiaccia oppositori e minoranze, vedasi il fatto dei 50 mila militari mantenuti a Cipro, trattati internazionali e leggi infrante per fini economici, spazio marittimo tolto alla Grecia, la chiesa di Santa Sofia trasformata in moschea, ecc.; insomma un esempio di boria dittatoriale tipica del presidente turco.

Ciò che è successo ad Ankara nella giornata del 7 aprile 2021 non deve rimanere in sordina: l’affronto non è stato solo verso una donna, bensì verso una tipologia di cultura e società.

Riflettiamoci.

Lady F.

“Bastava Chiedere!”

Quante volte ce lo siamo sentite dire dal nostro partner? E quanto ci ha fatto innervosire?

Possibile che tutto debba dipendere da noi?

Possibile che perfino durante la chemioterapia io mi trovassi a pensare se a casa fosse tutto a posto? Se mio marito avesse pensato a preparare la merenda a mio figlio? Se si fosse ricordato di far ripassare la poesia a Francesco prima di andare a scuola?

E attenzione, mio marito è un uomo che mi aiuta molto nella gestione della casa e… SBAGLIATO!!!!! Ho appena fatto un errore enorme! Un errore che facciamo in molte!

Rileggete la frase che ho scritto: “mio marito è un uomo che mi aiuta molto […]”

Nooooo! non mi deve AIUTARE, deve CONDIVIDERE la gestione della casa! Una sottile differenza ma che esprime un concetto enorme! La casa è di entrambi, la famiglia è di entrambi, entrambi lavoriamo, quindi… la responsabilità è di entrambi!

Semplice no? La risposta è sì, ma no.

Non mi credete? Allora leggete “Bastava chiedere!” di Emma con introduzione di Michela Murgia e scoprirete quanto sulle donne gravi il concetto di carico mentale, ovvero quel “processo per cui si chiede alle donne di complicarsi la vita per semplificare quella di cui amano”.

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