La lingua italiana può essere FEMMINA

È diventato un caso nazionale (e anche internazionale considerando il palco su cui il fatto è successo): durante il Festival di Sanremo la musicista Beatrice Venezi ospite di Amadeus e Fiorello sostiene che malgrado esista il termine “Direttrice d’orchestra” lei preferisce essere chiamata con il termine al maschile. 

“Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro. Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è ‘direttore d’orchestra”.

A quanto pare il “direttore” ignora il fatto che in italiano il corrispondente femminile esiste, solo che solitamente si parla di direttore semplicemente perché storicamente questo ruolo è stato ricoperto da uomini. E quel che è peggio si pensa che declinandolo al femminile sminuisca automaticamente la competenza. 

Questo l’ho notato quando ho chiesto l’opinione della mia community IG riguardo questo argomento. In moltissime mi hanno scritto che preferiscono il termine maschile del loro ruolo lavorativo perché è preso più seriamente, ma soprattutto perché se usata al femminile solitamente è per schernire. 

Ecco qua. 

Rimanendo ferma dell’idea che ognuno può fare quello che vuole (e quindi farsi chiamare come preferisce) ritengo che utilizzare un linguaggio inclusivo sia un tassello importante nel raggiungimento di un riconoscimento paritario. 

Cosa si intende per linguaggio inclusivo? Questo è un linguaggio che non deve essere discriminatorio nei confronti dei generi. Ultimamente ne abbiamo sentito parlare molto, soprattutto nell’ambito proprio delle figure professionali. Termini come “sindaca”, “avvocata”, “ministra” e “ingegnera” sembrano addirittura indignare le persone (sia uomini che donne). Ma perché? In un programma televisivo in onda su TV8 qualche giorno fa parlavano proprio di questo e un opinionista sosteneva che questi termini fossero “brutti e cacofonici” e un altro ancora sostena che il termine “ingegnere” ad esempio poteva considerarsi NEUTRO. 

Ora, per quanto riguarda la prima opinione la si può definire soggettiva e quindi quasi inutile. Il secondo intervento, apparentemente più oggettivo, invece denota una certa ignoranza della lingua italiana: perfino mio figlio di 11 anni sa che grammaticalmente l’italiano non ha il genere neutro. Sinceramente penso di poter sintetizzare il pensiero di questi due opinionisti con quello che forse è il pensiero di molti: non siamo abituati al suono di questa declinazione al femminile per lavori che fino a poco tempo fa erano svolti unicamente da uomini. 

Disgusto che invece non si nota per parole (e lavori) come contadina, operaia, commessa, maestra. Insomma si palesa che la scalata sociale/lavorativa delle donne nell’ultimo secolo non è ancora del tutto accettata (ma va?). Solo che farlo presente, con cose apparentemente futili come le parole, genera dissidi e le frecciate via social fra politici e personaggi pubblici ne sono la prova. 

Tengo particolarmente a segnalare l’intervento di Gianna Fratta, direttrice (orgogliosamente direttrice) che il giorno seguente all’intervento di Beatrice Venezi scrive un post interessante in cui sostiene “IERI SERA A SANREMO UN SALTO INDIETRO DI 50 ANNI PER TUTTE LE DONNE E GLI UOMINI DI QUESTO PAESE E UNO SCHIAFFO IN FACCIA ALLE TANTE CHE SI SONO BATTUTE E ANCORA SI BATTONO PER LA PARITÀ!”  oppure quello della deputata Laura Boldrini che afferma “Se i termini al femminile vengono nascosti, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti!” (fonte: La Repubblica).

Io mi sento d’accordo con queste affermazioni: la lingua è specchio della società e se oggi le donne ricoprono ruoli che fino a poco tempo fa erano esclusivamente riservati agli uomini, allora è giusto che questi si declinino al femminile. Si determina così una Concordanza Grammaticale.

Stefania Cavagnoli nel articolo “Linguaggio giuridico e linguaggio di genere” cita una pubblicazione di Anna Sabatini del 1987 in cui sostiene che “la lingua non è riflesso diretto dei fatti reali, ma esprime la nostra visione dei fatti, inoltre, fissandosi in certe forme, in notevole misura condiziona e guida tale visione”. In pratica, la lingua non è così e basta, la lingua è il prodotto dell’interazione umana e del pensiero, come tale quindi può e deve essere modificata sulla base delle relazioni e degli avvenimenti sociali.

L’Italia poi non è l’unica nazione che sottolinea la necessità di adattare la lingua alla condizione sociale, anche la Francia ha cominciato una battaglia considerata futile da molti. Più di 300 insegnanti hanno firmato una petizione in cui chiedono di reintrodurre nella lingua francese la Regola di Prossimità, ovvero la regola per cui l’aggettivo concorda con il genere del sostantivo a lui più vicino. Un esempio? I cani e le coccinelle sono belle. Dal ‘600 questa regola è cambiata e il maschile prevale sul femminile sempre (articolo originale QUI).

Capisco che apparentemente queste campagne possano sembrare futili, l’obiezione più frequente alle critiche nate dopo l’intervento di Beatrice Venezi a Sanremo è stata infatti: “Ma cosa importa del nome? Ci sono cose ben più importante per cui battersi!” 

Certo che ci sono cose più importanti. Alcun* mi hanno scritto in direct nel mio profilo IG dicendo che più che badare al fatto che una donna sia chiamata avvocato o avvocata, non sarebbe meglio concentrarsi nella lotta per una pari retribuzione? “Ovvio che sì!” è stata ed è la mia risposta. Ma non credete che per ottenere uno stipendio uguale a quello di un uomo noi donne non dovremmo in primis riconoscere il nostro ruolo attivo nella figura professionale che ricopriamo dandoci il giusto nome/titolo? 

Dare un nome alle cose significa farle esistere e gettare una luce nuova sul loro essere. Z. Baumann sosteneva l’importanza ontologica della lingua e della fondamentale necessità di denominare le cose del mondo in cui viviamo. “Il nome è importante, non solo per i significati che include, ma perché l’atto di denominare non è un dato tecnico, ma descrive un processo culturale e intellettuale di primaria importanza”

Ecco perché è importante sostenere la femminilizzazione dei termini che identificano delle professioni. Prima di parlare di stipendi, di valorizzazione, è il nome che deve cambiare perché è il nome che renderà reali il cambiamento sociale che la donna ha realizzato e continua a realizzare.

Quindi mi sento di concordare con Mariangela Galatea Vaglio nel suo articolo per L’Espresso quando afferma che “No, la lingua italiana non è sessista. Ci sono il maschile e il femminile. Cominciate ad usarli!” (QUI l’articolo)

E aggiungo: se in Italia siamo riusciti ad introdurre parole come “Petaloso” davvero vogliamo indignarci al suono di Ingegnera?

Suvvia!

Lady Fra’

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