Il Paradosso dell’abbigliamento Femminile

È possibile vivere in un mondo in cui da una parte abbiamo una cultura che vuole le donne coperte interamente e a cui si fatica vedere perfino gli occhi fuori dal burka e un’altra in cui abbiamo delle atlete che sono obbligate a portare delle divise così succinte da essere perennemente in imbarazzo e scomode?

Sì, nel nostro mondo purtroppo sì.

La cultura patriarcale a quanto pare non ha limiti e come per molti altri aspetti, siamo di fronte ad estremi che se guardati senza un minimo di empatia fanno quasi ridere.

Sono anni che osservo questi fenomeni allibita dal fatto che ancora nel XXI secolo siamo costretti ad essere testimoni di palesi discriminazioni sessuali senza però intervenire in nessun modo.

Quindi potrete capire la mia felicità quando ho assistito alle proteste di atlete come le giocatrici di pallamano da spiaggia norvegesi e le ginnaste germaniche.

Non sapete di cosa sto parlando? Nessun problema, vi aggiorno io!

La notizia più recente è quella che vede protagonista la squadra di pallamano da spiaggia norvegese, che agli ultimi campionati europei ha deciso di indossare dei pantaloncini al posto della decisamente più succinta divisa imposta dalla federazione. Questa presa di posizione non è passata indenne: la squadra è stata infatti multata per un valore di 150 euro a giocatrice, con un totale quindi di 1500,00 euro. La motivazione: “abbigliamento inappropriato”. Il regolamento della Federazione Internazionale infatti prevede che la divisa sia composta da un bikini “aderente, con un angolo verso l’alto, verso la parte superiore della gamba”.

Ma andiamo a vedere invece la divisa degli uomini? Guarda caso per loro il corpo è scoperto solo per circa il 30%. Le squadre maschili infatti indossano canottiera e pantaloncini che possono arrivare addirittura sotto il ginocchio.

Come si spiega? Tre parole: SESSUALIZZAZIONE DELLE ATLETE.

E la multa che è stata rilasciata non può che essere oltraggiosa, tanto da scatenare non poche polemiche nel mondo dello sport e non. La ex campionessa di tennis Billie Jean King ad esempio si è schierata con le atlete norvegesi, così come il club di pallamano britannico dell’Università di Bath che rilancia la protesta dichiarando che la discriminazione data dalla divisa è tale da impedire a molte donne di intraprendere questo sport.

A supporto della squadra norvegese è arrivata anche la cantante Pink, da sempre testimone in molte campagne contro la discriminazione sessuale, ha espresso il suo orgoglio verso le atlete dicendo di non piegarsi alla Federazione e che al pagamento della multa avrebbe pensato lei.

Trasferiamoci ora alle qualificazioni per le finali olimpiche di ginnastica artistiche in cui la “guerra all’ideale di campionessa-oggetto” è cominciata con le atlete della nazionale tedesca che ha rifiutato di indossare il tradizionale body, presentandosi invece con delle (bellissime) tute stretch lunghe fino alle caviglie. A dirla tutta questa non è stata la prima volta che hanno indossato questa nuova divisa, la nazionale tedesca ha infatti sfoggiato la tuta lunga agli Europei di Ginnastica che si sono svolti in aprile 2021.

In ogni caso sono assolutamente le prime ad aver cambiato le carte in tavolo e vi posso assicurare che da ex ginnasta mi trovo completamente d’accordo con loro, non solo per l’aspetto idealistico, bensì perché ho provato la sensazione di esibirmi con quelle tutine striminzite. Sono colma di foto e video di me impegnata a sistemare il body che mi entrava nelle chiappe!

Questa sono io!
Notare la mano che sta sistemando il body

Per non parlare del periodo dell’adolescenza in cui ogni ragazzina è impegnata in una dura lotta di accettazione del proprio corpo in fase di enorme cambiamento. Gli ormoni che esplodono facendo esplodere anche parti del tuo corpo che non riconosci e di cui non senti quasi il controllo, ad esempio. Benissimo in tutto questo almeno una o due volte al mese devi passare giornate intere con un micro-body che mostra tutti questi cambiamenti, che tu non hai ancora imparato ad apprezzare, e che se solo hai un chiletto in più sulle chiappe questo viene esaltato come se i chili in più fossero 100.

E il seno? Ah beh, c’è da pregare che non sia troppo prosperoso perché oltre ad essere un impedimento nell’esecuzione stessa dell’esercizio, può essere fonte di grande imbarazzo con tutine che devono essere uguali per tutti i componenti della squadra che racchiude bambine e ragazze con le loro inevitabili differenze.

Quindi la prossima volta che a qualcuno viene da pensare che la protesta cominciata da queste atlete sia futile, che sia l’ennesima presa di posizione di un gruppo di femministe convinte, bene, a questa persona chiedo di provare una sola volta la sensazione di sentirsi in imbarazzo davanti a centinaia di occhi. Ah, e non dimenticate di sorridere!

Inoltre mi permetto di suggerire un’altra modalità di protesta: se tra gli atleti maschili ci fosse qualcuno solidale con le colleghe donne, sarebbe bello che si palesasse, magari indossando una divisa regolare femminile… una cosa così insomma:

Sarei proprio curiosa di vedere la reazione mondiale!

Lady f.

Amicizie Femminili. Tra Storia, Battaglie e Social Media

Recentemente mi è capitato di poter finalmente rimettere piede in un museo. Nello specifico la scorsa settimana mi sono recata al Museo delle Donne di Merano (QUI il sito per tutte le info).

Logo del Museo delle Donne di Merano

Dal 01 marzo 2021 al 31 ottobre 2021 sarà possibile ammirare una splendida ed interessante mostra temporanea intitolata “Amicizie femminili. Dallo scambio emozionale alla rete relazionale” (QUI il video di presentazione). Mostra che è stata portata da Bonn grazie ad un’idea di Bettina Bab e l’International Association of Women’s Museum e che sottolinea come nei secoli i rapporti amicali tra donne tra lettere, salotti e circoli letterari abbiano portato a cambiamenti culturali e sociali determinanti. Lo scambio di opinioni tra donne con un rapporto di amicizia e quindi di fiducia, le ha condotte a superare i ruoli tradizionali imposti dalla società. Troviamo la scintilla in una rete relazionale che comincia con donne single o vedove che trovano nelle amicizie dello stesso sesso forza per farcela da sole e realizzare quindi i loro piani con amiche sulla loro stessa lunghezza d’onda. Forza che serviva per affrontare difficoltà legali o le resistenze dei familiari.

Da piccole rivoluzioni possono avvenire grandi cambiamenti, ne è esempio come dallo scambio di lettere tra amiche si è arrivati ad organizzare il Congresso Internazionale per la Pace delle Donne a Den Haag nel 1915 a cui parteciparono donne di entrambe le parti in guerra. Così come non avremmo mai avuto l’Associazione Internazionale del Suffragio Femminile.

La mostra al Museo delle Donne di Merano colpisce per l’intensità con cui arriva il messaggio di queste donne del passato che grazie all’amicizia e la collaborazione sono riuscite a cambiare molti degli aspetti sociali e culturali legati al ruolo della donna. Camminare tra quelle vele che mostrano nomi, immagini e lettere (ritenute intime da chi le ha scritte, ma che ora sono un caposaldo del movimento femminista), mi ha scatenato un insieme di emozioni travolgenti. È stato incredibile leggere le parole di un passato che è prepotentemente moderno e attuale. Certo le dinamiche sono differenti, ma alla base il concetto è sempre lo stesso: la ricerca di realizzarsi ed essere trattate in modo paritario. Non nego di essermi commossa davanti alla storia di alcune di queste donne, come ad esempio quella di Helene Lange e Gertrud Bäumer. Helene era una pedagogista autodidatta che riformò il sistema educativo femminile. Dopo aver cominciato insegnando a Berlino nel 1876 si accorse di come questa professione fosse gravata da limiti e pregiudizi. Questo la avvicinò al movimento femminista e assieme ad August Schmidt nel 1890 convocò una delle prime assemblee di insegnanti donne. Fondando l’Associazione Generale delle Insegnanti Tedesche protestarono con il fine di ottenere una formazione professionale migliore così come misero le basi per un cambiamento nell’istruzione femminile. Quando Helene viene colpita da una malattia agli occhi assume una giovane segretaria, Gertrud appunto, che con il suo entusiasmo riportò la voglia di fare ad Helene. Gertrud succederà Helene nella presidenza del Concilio delle Organizzazioni femminili tedesche e viene coinvolta anche nel progetto editoriale Die Frau.

Insomma, una relazione che dimostra la potenza dell’alleanza femminile, così come le incorreggibili Elsie Knocker e Mairi Chisholm, due amiche di origine britannica che durante la Prima Guerra Mondiale allestirono un’infermeria nel bel mezzo del fronte per offrire i primi soccorsi ai soldati prima di essere trasportati agli ospedali da campo. Facevano parte del corpo volontario di Pronto Soccorso e Mairi dovette scappare di casa perché com’era immaginabile la sua famiglia disapprovava le sue scelte. Particolare divertente: entrambe appassionate di moto, partirono con le loro due ruote dalla stazione Vittoria per le Fiandre indossando pantaloni che scandalizzarono i presenti. Come detto allestirono un’infermeria sotto i bombardamenti e fecero tutto autofinanziandosi cercando fondi. Sono ricordate tra le donne più coraggiose della Grande Guerra.

Ritengo che questa mostra sia molto arricchente a livello culturale, ma anche emotivo e ci fa scoprire la potenza dell’amicizia.

Ma cos’è l’amicizia?

Sotto l’aspetto sociologico si intende un rapporto esclusivo tra due persone o un gruppo ristretto, che si frequenta e condivide interessi. Un legame importante che nasce da subito tra i bambini che condividono i giochi, le lezioni a scuola e che procede nell’adolescenza diventando un punto di riferimento tale da sostituirsi alle figure genitoriali.

Indagare i meccanismi di costruzione dei confini dell’amicizia, capire quali persone ed in quali circostanze vengono incluse in una rete amicale significa chiarire il modo in cui i legami forti si differenziano da quelli deboli nell’esperienza dei soggetti

Possono esserci differenze tra uomini e donne nelle relazioni amicali?

Alcuni studi sociologici e antropologici sostengono di sì. In particolare, lo svantaggio sociale femminile sembra derivare originariamente da reti meno ampie e differenziate rispetto a quelle maschili. Nello specifico sembra che le donne tendano ad avere pochi legami deboli che sono utili nella ricerca di lavoro, ad esempio, e nelle strategie di carriera; altro esempio è la carenza di amicizie maschili che per ovvi motivi strutturali della società potrebbero ampliare il ventaglio di posizioni lavorative. In sostanza le amicizie femminili sembrano essere limitate all’ambito domestico e di cura, al contrario di quelle maschili più legato all’ambiente esterno. Questo non può che portare ad una disparità di possibilità lavorative, infatti la tendenza è quella che i lavori femminili siano a bassa qualificazione (Hanson e Pratt, 1991).

Bisogna quindi soffermarsi ad indagare le diverse modalità di costruzione degli spazi sociali personali degli uomini e delle donne, in particolare capire come e quanto ha influito nei secoli il le differenze delle relazioni sociali e la derivante costruzione di relazioni interpersonali di riconoscimento abbiano influito sul capitale sociale femminile.

Uno studio ha rilevato che prendendo come campione di osservazione giovani uomini e donne che frequentano l’università, queste differenze sono meno evidenti, innanzitutto perché l’influenza del ruolo domestico è meno presente: la routine si svolge in ambiti molto simili e con lo stesso tipo di vincoli. Dobbiamo poi tenere conto della valenza culturale: con una maggiore istruzione i modelli di genere tradizionali sono meno forti e avvenendo in una fase di sviluppo in cui si passa da strascichi adolescenziali ad adulti l’accrescimento esperienziale e culturale permettono di consolidare l’identità di genere.

Cosa vuol dire tutto questo?

Se andiamo a vedere ciò che ho riportato riguardo le donne descritte e rappresentate nella Mostra al Museo delle Donne di Merano, coloro che hanno dato il via a relazioni amicali che hanno portato a grandi cambiamenti erano donne di un certo ceto sociale e con un’istruzioni sicuramente sopra la media rispetto alla maggior parte del genere femminile. Ecco quindi dimostrato come la cultura, l’istruzione e la possibilità di confronto siano fondamentali per avviare una rete amicale costruttiva, ed ecco perché ciò che il movimento femminista ha compiuto negli anni, rivoluzionando tra le altre cose anche il sistema scolastico femminile, sia stato indispensabile per avviare il processo di cambiamento che ha portato il raggiungimento di diversi traguardi per le donne.

Di lavoro e cambiamenti ce ne sono ancora molti da fare, ma come dico sempre prendendo esempio dalle grandi donne del passato non possiamo che imparare. E imparare vuol dire anche osservare i avvenimenti che ci circondano. Mentre mi trovavo a leggere le vite delle fantastiche donne raccontate nella mostra, ho trovato tantissime similitudini con quello che talvolta succede tra i social. Sì perché se agli albori di questi fenomeni c’erano le lettere, oggi gli strumenti che accomunano, raggiungono e portano al confronto sono i social media.  Non si può non tenere conto della potenza della gittata di piattaforme come Instagram, Facebook e YouTube. Perfino io nel mio piccolo sono qui a ad esprimere pensieri che potrebbero portare a riflettere molte persone grazie al fatto che ho una mia community che mi segue. Ed è grazie ai social che ho avuto e ho ancora l’opportunità di confrontarmi e collaborare con donne e uomini che di persona non avrei mai potuto incontrare.

Solo l’idea di poter commentare l’intervista dell’anno di Harry e Meghan da Ophra con un’esperta Royal del calibro di Marina Minelli ( @Marina_Minelli_) mi fa ancora girare la testa; così come organizzare aperitivi in cui parlare dei miei amati Tudors con una persona che riesce a terminare le mie frasi senza aver preparato la minima scaletta (sì, sto parlando di te Elisa Morini @LaSpettinata).

Non dimentichiamo poi battaglie come la “Tampon Tax”, il “Revenge Porn” e le discriminazioni di genere (non ultima quella per Aurora Leone dei “The Jackal”) che grazie ai social hanno permesso a molte donne di far sentire la loro voce e avere la possibilità di avere il sostegno di molte persone, anche impensate. Certo insieme al sostegno a volte arrivano anche critiche, ma fa tutto parte del pacchetto del confronto e del cambiamento: sappiamo molto bene cosa hanno dovuto affrontare le nostre antenate per ottenere ciò che abbiamo oggi. Quindi, quando ci sentiamo demoralizzate e frustrate, ripensiamo a loro e leggiamo il più possibile sull’argomento.

Insomma, il mio invito (oltre a far visita al Museo delle Donne di Merano e se non vi è possibile visitate questo sito) è quello di continuare ad informarci e confrontarci. La consapevolezza ci permette di guardarci allo specchio e riconoscere ciò che siamo e ciò che meritiamo, imparando a rispettarci. E se rispettiamo noi stessi non permetteremo a nessuno di non farlo altrettanto.

Francesca

Bibliografia:

https://journals.openedition.org/qds/1343?lang=en

https://www.treccani.it/vocabolario/amicizia/

“Il completino te lo metti in tribuna!”

Caro direttore generale della nazionale cantanti, sa dove glielo metterei io il completino?

A volte è davvero frustrante fare la “femminista consapevole”, come amo definirmi, senza alzare i toni e dar sfogo alla rabbia.

Poi però capisco che la rabbia rende irrazionali e l’irrazionalità non porta a grandi risultati se non a violenza su violenza.

immagine presa dal profilo IG di @avvocathy

Perché di questo stiamo parlando: Aurora Leone, attrice componente dei “The Jackal” ha subìto una violenza. Nei video che troviamo sul suo profilo Instagram la possiamo vedere agitata, scioccata e ammette di essersi sentita in imbarazzo.

Per chi ancora non lo sapesse, ieri sera, alla vigilia della giornata programmata per l’evento annuale de “La Partita del CUORE” in cui la Nazionale Cantanti avrebbe sfidato i Campioni per la Ricerca in una partita di beneficenza a favore della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro (a questo proposito donate allo 45527), Aurora e Ciro (Priello) convocati per partecipare alla partita come giocatori si siedono a cena chiacchierando con alcuni cantanti. Ad un certo punto il direttore generale, Gianluca Pecchini, ha esortato Aurora ad alzarsi e a sedersi ad un altro tavolo, il tutto perché donna. Sì, perché nel momento che Ciro si è alzato per spostarsi con lei, gli è stato detto che lui poteva rimanere. Al che i due hanno pensato ad un malinteso e hanno specificato che Aurora non era l’accompagnatrice di Ciro e che era stata convocata anche lei con tanto di mai che lo provavano visto che le avevano chiesto anche la taglia per la divisa. Ed ecco arrivare la risposta del direttore che mi ha infervorata: “Il completino te lo metti in tribuna se vuoi, le donne non giocano! Queste sono le nostre regole!”

Avete capito ora l’incipit di questo mio post?

In un mondo dove assistiamo a guerre, pandemie, disoccupazione violenze e omicidi dove molto spesso le donne sono le prime vittime, possiamo pensare che una notizia del genere sia nulla a confronto. E invece no. I messaggi subliminali (neanche tanto in questo caso) sono violenti tanto quanto una rissa. Le parole pesano come macigni. Quello che è stato detto ad Aurora equivale ad un pugno in faccia a tutto quello per cui le donne si stanno battendo da anni, anzi no, SECOLI.

Ci rendiamo conto di quello che quotidianamente molte ragazzine devono subire nei campi da calcio (come nel rugby, nel basket, e in tutti quegli sport considerati “da maschio”)?

Io ho un figlio di 11 anni che da 2 gioca in squadra con una bambina (fino ad una certa età o categoria le squadre possono essere miste) e se c’è una cosa su cui ho sempre insistito è stato insegnargli di portarle rispetto come per qualsiasi altro componente della squadra. Attenzione: io gli ho insegnato che non doveva trattarla MEGLIO ma semplicemente UGUALE agli altri.

Perché è questo il fondamento del mio femminismo consapevole: io non pretendo che le donne siano privilegiate, io vorrei, e mi batto per questo, che fossimo trattate alla pari.

Se nel maggio del 2021 devo stare ancora a sentire il direttore generale di un evento di beneficenza, ripeto di BENEFICENZA, che dice ad una ragazza (tra l’altro che più volte ha dimostrato di amare il calcio e di capirne anche più di alcuni uomini) che le donne non possono giocare a calcio e che se vuole il completino (divisa) se la può mettere guardando la partita dalle tribune, allora vuol dire i toni pacati non bastano più.

È inutile che io allora mi arrabbi se associazioni ludiche per bambini organizzino pomeriggi “Calciatori e Veline” in cui per le bimbe ci sono attività a tema “salone di bellezza” e per i bimbi “tutto calcio” con tanto di dicitura: per le bimbe salone di bellezza, trucco, parrucco e manicure… una serata all’insegna del rosa! Per i maschietti sport, sport, sport! Belli, sudati e felici!”

Ci rendiamo conto che queste iniziative sono altamente discriminanti? E ci rendiamo conto che quello che il direttore generale Gianluca Pecchini ha fatto è la stessa cosa?

Con il suo gesto, la sua violenza nei confronti di Aurora Leone ha messo in un angolo tutte quelle bambine che amano giocare a calcio, fare sport ed essere belle e sudate come i “maschietti”.

Ma come dice un famoso film: NESSUNO PUO’ METTERE BABY IN UN ANGOLO!

E quindi, mia cara Italia, tira fuori il Patrick Swayze che è in te e questo direttore e tutti i suoi simili facciamoli stare zitti e buoni (citazione non a caso che fa riferimento ad accuse date per altri stereotipi che dovrebbero ormai essere superati… ed ecco quindi il motivo della maglia della nazionale francese)

Immagine presa dal profilo IG de “Il Corriere della Sera”

Lady Fra’

Tampon Tax. Le Donne, il ciclo mestruale nei secoli e il concetto di “bene di lusso”

Sono passati mesi da quando la Scozia, la mia amata Scozia, ha segnato l’inizio di un cambiamento che noi donne aspettavamo da anni: la riduzione dell’IVA sui prodotti sanitari ed igienici femminili. Una battaglia che sembra non avere ancora fine perché malgrado l’esempio della maggior parte dei paesi europei come Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Irlanda e per ultima anche la Germania, l’Italia sembra (come al solito) rimanere indietro. Giusto per darci un contentino hanno abbassato l’IVA, solitamente al 22%, al 4% durante la settimana della festa della Donna e secondo molti avremmo dovuto anche ringraziare. A mio parere è stata solo una grande presa in giro. Ci rendiamo conto che occupiamo la 23° posto tra i 28 stati appartenenti all’Unione Europea?

Un piccolo spiraglio sembra arrivare da Firenze. Già culla del rinascimento, il capoluogo toscano sembra voler essere nuovamente un faro per tutta la penisola: è infatti la prima città a non far pagare più la “tampon tax”, ma c’è l’esigenza di avere una risposta rapida e chiara dal Governo che dirotta le risorse a causa dell’emergenza COVID. Fino al 31 marzo 2022 quindi nelle farmacie fiorentine gli assorbenti non avranno più applicata l’IVA al 22%.

“L’eco che stiamo ricevendo è di gran lunga maggiore a quello che ci aspettavamo. È la dimostrazione che l’abolizione della tampon tax non è solo un diritto delle donne, ma un principio di equità sociale” queste le parole di Dario Nardella, sindaco della città fiorentina.

Il problema sembra legato al fatto che gli assorbenti e tutti i dispositivi sanitari ed igienici per le donne vengono considerati un bene di lusso. Facciamo chiarezza, Wikipedia offre questa definizione di bene di lusso:

“Il bene di lusso si riferisce a un bene di consumo superfluo e che rappresenta una spesa eccessiva rispetto alle possibilità economiche di qualcuno. I beni di lusso sono spesso oggetto di ammirazione e desiderio e il loro valore di scambio è molto elevato”. Praticamente allo stesso livello di orologi, auto, borse e scarpe griffate.

  1. Gli assorbenti non sono un lusso ma una necessità
  2. Gli assorbenti non sono un bene superfluo
  3. Non penso siano oggetto di ammirazione (anzi) e men che meno hanno un valore di scambio

Ed è qui che subentra l’aggancio che voglio fare a questo tema. Forse capire come siano nati gli assorbenti e come affrontassero il ciclo mestruale le donne nella storia, offrirà una nuova prospettiva a chi afferma che si debba imporre su questi dispositivi igienici una tassa di lusso.

Gli assorbenti a cui siamo abituati, quelli usa-e-getta pubblicizzati in televisione, radio, e giornali sono un’invenzione recente, risale infatti alla fine del IX secolo perfezionata poi nel secolo successivo, ma come affrontavano le donne il flusso mestruale nei secoli precedenti? Quali tabù erano legati alle mestruazioni?

Questa cosa mi ha incuriosito quando ho letto il libro “La grande avventura dei diritti delle donne” di Soledad Bravi e Dorothée Werner in cui, attraverso vignette tanto divertenti quanto graffianti, hanno mostrato la realtà femminile dalla preistoria ad oggi. In particolare sono rimasta colpita del capitolo dedicato alla Caccia alle Streghe in cui si sottolinea come le mestruazioni considerate fino a quel momento (XV secolo circa) segno di fecondità, diventano invece la prova della maledizione divina arrivando a supporre che le donne che soffrivano di un ciclo doloroso fossero possedute dal demonio, accusate di stregoneria vengono esiliate o mandate al rogo. Si contano circa 100 mila vittime. Cosa porta tutto questo? A dover nascondere il più possibile la perdita di sangue.

Davvero interessante scoprire quali fossero le tecniche utilizzate.

Considerato che per secoli non esisteva nulla di simile alle mutande a cui poter agganciare gli assorbenti esterni, all’alba dei tempi le donne utilizzavano una forma arcaica del tampone interno con i più svariati materiali: in Egitto usavano il papiro ammorbidito o il lino. A Sparta e Atene si erano ingegniate avvolgendo delle garze attorno a piccoli pezzi di legno per favorire l’inserimento.

Con l’Impero Romano si cominciano ad usare bende di lana agganciate alle cinture delle vesti.

Il Medioevo e il successivo periodo di caccia alle streghe e Inquisizione come detto ha segnato l’inizio del tabù sulle mestruazioni e questi giorni venivano affrontati in gran segreto. Le popolane si adeguavano ancora con i metodi antichi, mentre le donne di ceto elevato avevano cominciato ad utilizzare sotto le vesti delle culotte o dei pantaloncini che servivano a contenere l’assorbente di cotone oppure di un particolare tipo di muschio da una forte azione assorbente utile soprattutto in caso di emorragie.

Particolarità: il ciclo mestruale era diverso rispetto a quello a cui siamo abituate oggi. Era irregolare e si presentava sporadicamente, questo a causa di alimentazioni povere, e condizioni di vita difficili. Inoltre, in età fertile le donne affrontavano una gravidanza dietro l’altra e la menopausa arrivava molto presto.

Altra particolarità interessante è quella che il colore predominante nel guardaroba femminile era il rosso, questo perché permetteva di mimetizzare le eventuali macchie di sangue mestruale.

Il Rinascimento ha mantenuto il tabù verso le mestruazioni e le donne si sono inventate di tutto per far sì che il flusso non macchiasse: pezzi di cotone, lana, spugne, muschi e pelli animali. Se teniamo presente poi che nel XVII secolo è cominciata a girare la credenza che lavare la biancheria portasse malattia, possiamo immaginare quanto fastidiosi potessero diventare gli odori corporei. E quindi via di profumi a litri!

Come detto gli assorbenti “moderni” sono nati alla fine del XIX secolo, ma non hanno avuto subito successo: le donne si vergognavano a comprarli continuando così ad utilizzare quelli lavabili che tenevano legati con spille da balia o cordini e lavandoli e rilavandoli.

Ci è voluta la Prima Guerra Mondiale e le infermiere per cambiare il materiale assorbente, si scopre infatti il Cellucotton utilizzato negli ospedali da campo per bloccare le emorragie.

I ruggenti anni ’20 ci portano il KOTEX, un materiale più conveniente rispetto al Cellucotton, ma soprattutto l’idea delle case produttrici di esporre gli assorbenti negli scaffali, senza per forza doverli richiedere ai commessi per la maggior parte uomini. È la svolta. Insieme alla diffusione di biancheria intima sempre più sgambata che permette all’assorbente di rimanere più facilmente in posizione negli anni ’70 arriva in aiuto anche la striscia adesiva.

Se però ancora molte donne rimanevano scettiche sul concetto di usa-e-getta in quanto sembrava uno spreco di denaro, i cambiamenti sociali che hanno portato le donne ad uscire di più di casa, a lavorare e fare esercizio fisico ha agevolato la vendita di questi nuovi prodotti che non portavano via tempo impiegato in altro.

Dopo questa serie di curiosità sulla storia di come le donne hanno affrontato il loro ciclo mestruale nei secoli, davvero si può ancora pensare che un assorbente sia un bene di lusso da pagare con l’IVA al 22%?

Beh, chi non afferma il contrario meriterebbe di camminare una settimana con un legnetto avvolto da una garza nel…

Lascio finire a voi!

Lady F.

Il Bacio della Discordia

Ebbene sì, anche io voglio dire la mia sul caso della settimana: il bacio non consensuale del Principe Azzurro a Biancaneve.

In questi giorni si è letto di tutto suddividendo l’opinione pubblica in estremisti del politicamente corretto e indignati che pensano che al mondo ci siano problemi più gravi.

Preciso subito che il mio intento è quello di portare contenuti che possano far ragionare entrambe le fazioni e sì, ci sono problemi enormi in questa nostra società, ma da pedagogista, madre e femminista consapevole, non posso permettere che il mondo rimanga così com’è: ignorante e manovrato. Ho sempre dichiarato che nel mio piccolo voglio contribuire al cambiamento e lo farò con le armi di cui dispongo: i miei studi e la mia esperienza.

Cominciamo dal principio.

C’era una volta il bambino visto come un uomo in miniatura da accudire solo per assicurarsi forza lavoro nei campi e nelle guerre. Un giorno del XVIII secolo, grazie alla svolta data dall’Illuminismo, tutto questo cambia. Ci metterà del tempo, ma il mondo comincerà a vedere l’infanzia come una dimensione con caratteristiche specifiche. Nasce la pedagogia e con la psicologia anche un ramo dedicato ai primi anni di vita (psicologia dello sviluppo).

Ovviamente come per tutte le novità anche questi campi di ricerca hanno dovuto sperimentare, e a dirla tutta ancora si sperimenta parecchio, questo perché come accompagnare i bambini e le bambine nel loro sviluppo può essere considerato uno specchio dell’ideologia sociale. Il mondo cambia, le idee cambiano, le tecnologie avanzano; di conseguenza standardizzare un modello educativo/formativo e pensare di non farlo evolvere è il più grande errore che l’umanità possa fare. Si può rimanere fedeli ad un’idea, ad un approccio; ma gli strumenti, le modalità e i linguaggi devono seguire il flusso dei naturali cambiamenti antropologico-culturali.

Ecco quindi uno dei punti cardini del mio pensiero.

È giusto condannare e cambiare le favole classiche?

Durante il mio percorso universitario, ho frequentato l’interessantissimo corso di “Letteratura per l’Infanzia” e ricordo molto bene ciò che la professoressa un giorno disse in aula: “Le favole nascono con uno scopo preciso: narrare e formare in unum. La valenza pedagogica della narrativa non è da sottovalutare e nel farne una lettura critica bisogna tenere sempre presente questo aspetto duale che potenzia il significato ma che ne esalti anche la struttura!” In parole povere: se una fiaba è stata scritta in modo, questa aveva il suo motivo e il suo scopo. Non si può cambiare la struttura di una fiaba perché automaticamente si cambia anche il suo significato. Un esempio? Per quanto brutale (e io amo follemente gli animali) è necessario che il lupo muoia alla fine di Cappuccetto Rosso perché la favola in sé racchiude ben cinque insegnamenti: non fidarsi degli sconosciuti, non condividere informazioni personali, ascoltare le raccomandazioni dei genitori, non abbassare mai la guardia anche con persone che apparentemente si conoscono e in ultimo rivolgersi al cacciatore, le forze dell’ordine, in caso di bisogno. Perché è importante che il lupo muoia alla fine della storia? Perché rappresenta il “male” ed il male va eliminato, anche se ha le sembianze di un lupo come essere vivente che rischia l’estinzione, perché il male può avere mille volti, anche quelli di un tenero orsacchiotto rosa (vedasi la Disney come ha trasmesso questo messaggio con il personaggio di Lotso in Toy Story 3). Quindi se si decide di raccontare la favola di Cappuccetto Rosso per far sì che il significato (morale) arrivi, la struttura deve rimanere integra e soprattutto chiara. Provate a costruire un castello con le carte, alla base però cambiate una carta con un legnetto: il castello crollerà perché un elemento non era fatto per quella struttura.

Questo non vuol dire che non si possano leggere storie in cui i lupi sono buoni, divertenti e magari aiutano il protagonista di turno, tutto sta nel rendere chiaro lo scopo che la fiaba ha con i suoi personaggi. È un’arma pericolosissima questa perché, come la storia ci insegna, chiunque può strumentalizzare le fiabe (o le notizie) identificando una tipologia di soggetti come il “male”. Ecco allora che durante il Nazismo erano gli ebrei, durante la guerra fredda i comunisti, dopo l’11 settembre i musulmani e ora, con il COVID, i cinesi.

Scrivo questo per cercare di far ragionare quel ramo di persone che addita le fiabe classiche come cruenti, sessiste e classiste. Beh, sono proprio così! Ovviamente lo sono anche i cartoni animati Disney che riprendono quelle favole.

È giusto far passare questo messaggio ai bambini? Certo che no. Ma fermiamoci un attimo a pensare: è giusto insegnare che Giulio Cesare per le sue idee è stato accoltellato? Che un ideale importante come quello dietro alla Rivoluzione francese sia macchiato dalla decapitazione di molte persone? Che le donne ateniesi non contavano nulla e dovevano stare sempre tra le quattro mura di casa?

Anche in questo caso la risposta è un sonoro NO.

Come fare allora? La soluzione sta in una parola: contestualizzare. Proprio così. Da pedagogista vi posso assicurare che lo si può fare con bambini e bambine di qualsiasi età. Se è la prima volta che proponete un film, cartone, libro, che può avere contenuti con ideologie, diciamo così “classiche”, allora non lasciate da soli i vostri figli, stategli accanto e spiegate (non saltate!) i passaggi che possono essere ritenuti superati.

(Quando sottolineo di non saltare le scene ovviamente do per scontato che la scelta sia ricaduta su qualcosa adatta all’età del bambino)

Ma torniamo al Bacio della Discordia

Tutto è nato perché due giornaliste del SF Gate, testata online di San Francisco, hanno scritto una recensione sull’attrazione dedicata a Biancaneve di Disneyland. Essendo tra le più antiche, durante il periodo di chiusura forzata del parco è stata aggiornata. La giostra terminava con la morte cruenta della regina/strega e questo è sempre stato fonte di critiche, così nella nuova versione a fin giro si può ammirare la scena iconica del bacio tra Biancaneve e il Principe. Le due giornaliste affermano che a loro parere offrire l’immagine di un contatto intimo senza consenso sia comunque traumatico e diseducativo per i bambini.

Ora, qui non voglio discutere l’opinione di queste due giornaliste, quello che mi fa arrabbiare è come l’opinione pubblica alteri qualsiasi cosa minacciando il mondo della presenza di quella che viene chiamata “DITTATURA DEL POLITICAMENTE CORRETTO”. Polveroni alzati per episodi spesso travisati diventano un caso da diffondere nel dibattito pubblico; i giornali sparano tronfi titoli che portano inevitabilmente all’indignazione, dividendo la popolazione tra i “Ma che idiozie, c’è di peggio!”, i “Non si può proprio più dire niente?” e i “Facciamo valere i nostri diritti!”. Per poi arrivare ad un nulla di fatto concreto se non l’ennesima conferma di una diramante cultura pressapochista.

Alcuni esempi di come i media italiani hanno trattato l’argomento

Il simbolismo dietro alla storia di Biancaneve è molteplice (ricordate il discorso significato/struttura) ed è ovviamente del suo tempo, in cui vigeva ancora una cultura per cui la donna è tale solo se materna e grata agli uomini. Biancaneve, come altre sue “colleghe”, è rinchiusa in una fiaba tradizionale con ideologie culturali palesemente inapplicabili nel 2021. Non è del bacio del Principe che ha bisogno, ma di libri, educazione emozionale e sessuale.

Vorrei portare l’esempio di un’artista che ha creato una serie di spiritose vignette. In modo arguto mostrano quanto le caratteristiche delle protagoniste femminili delle fiabe classiche possano essere considerate oggi da psicoanalisi. Ecco allora subentrare la dottoressa Pink Giraffe di Guadascribbles, artista venezuelana, che sottopone le principesse ad una seduta di psicoterapia mettendo a nudo le debolezze e i lati “negativi” di ogni storia (con gli occhi e le ideologie attuali), offrendo spunti di riflessione.

Sì, perché, se vogliamo “distruggere” le fiabe, allora facciamolo per bene. Oltre al bacio non consensuale vogliamo parlare della superficialità del concetto d’amore?

Prendiamo Cenerentola: balla con il principe (mai incontrato prima) per una notte, si innamorano follemente senza nemmeno sapere i loro nomi, lei ha il coprifuoco a mezzanotte e quindi lo deve abbandonare, l’unico indizio che il principe ha per ritrovare la sua bella è la scarpa che lei perde correndo e cosa fa? Mica va lui a cercarla, eh no, lui se ne sta comodo nel castello ad aspettarla e lei comunque lo venera (vedasi faccia da ebete nella scena finale). Decisamente più attivo il Principe Filippo de La Bella Addormentata nel Bosco che almeno combatte Malefica per arrivare dalla sua amata, qui il nome lo sapeva ma sbagliato e non ballano nemmeno una notte, ma giusto una canzone nel bosco… bah!

Lasciamo stare la Sirenetta che almeno nella versione Disney ha il suo lieto fine, ma nella fiaba originale, mamma mia che tristezza, e tutto per piacere ad un uomo (qui si capisce bene il senso del mio discorso del non cambiare le fiabe).

Grazie al cielo nel mondo Disney arriveranno personaggi femminile più intraprendenti che mostreranno come le donne possano contribuire attivamente alla costruzione del loro destino: Merida, Mulan, Tiana, Vaiana, Elsa e Anna, perfino Rapunzel!

Attenzione, perché se i puristi della Disney fanno a gara a chi disdegna di più i remake dei grandi classici, vi pongo un quesito: non può essere che con la scusa del live action si stiano andando a “svecchiare” le fiabe rendendole attuali? Un’operazione delicata in cui il significato può cambiare mantenendo però la struttura e il fine: l’apprendimento dei valori morali.

Carlotta Vagnoli scrive: “Non si tratta di cancellare le fiabe, ma accettare l’incompatibilità di alcune loro parti con la contemporaneità, favorendo una più profonda consapevolezza sociale e personale”.

Attaccare queste fiabe non porta a nulla. Prendiamole invece come spunto di analisi per un cambiamento. Soffermiamoci nella lettura del libro o nella visione del film e poniamo domande ai bambini come “Ti sembra giusto questo o quello?”

Vi assicuro che la loro risposta vi stupirà e, non meno importante, potrebbe accompagnarvi in un mondo senza pregiudizi e cattiveria.

A presto

Lady F.

La Cultura dello Stupro (for Dummies)

Il caso del figlio di Beppe Grillo, Ciro, indagato insieme ad altri 3 ragazzi di stupro di gruppo è sulla bocca di tutti da giorni. Questo perché il famoso genitore ha divulgato tramite social un video estremamente concitato (e decisamente polemico) in cui difende il figlio e gli amici girando la frittata e trasformando la vittima in una bugiarda.

Non mi soffermerò sul caso specifico perché non mi sento sufficientemente preparata in materia legale per analizzare da quel punto di vista la storia, inoltre le indagini sono in atto e chi di dovere sta già compiendo il suo.

Quello che voglio fare oggi è andare al nocciolo della questione. In un mondo apparentemente (molto apparentemente) paritario, esiste ancora un alone enorme di cultura patriarcale per cui quando viene denunciato uno stupro gira che ti rigira la colpa sembra sempre essere della donna.

Esistono manuali “for dummies” (per novellini-incapaci-negati) di qualsiasi cosa. Bene, io ora ne farò uno in formato bignami sulla cultura dello stupro, conosciuto nel web nella sua versione inglese Rape Culture.

Che cos’è la Rape Culture?

Iniziamo con una semplice definizione.

La cultura dello stupro è un termine utilizzato per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono prassi comune[1], ma che soprattutto sono supportati da atteggiamenti che normalizzano, minimizzano e addirittura incoraggiano la violenza sulle donne.

L’origine di questa espressione lessicale non è certa. Quello che si sa è che la prima a parlarne, negli anni Settanta, è stata la produttrice e regista statunitense Margaret Lazarus che nel documentario “Rape Culture”, appunto, affronta il tema della rappresentazione dello stupro nel cinema, nella musica e in generale nelle arti.

Tutto chiaro fino a qui? Immagino che la definizione in sé inorridisca solo leggendola. Sono sicura che se andaste per la strada a chiedere alla gente se in Italia questa sia una cultura presente, in molti, soprattutto con un’età dai 45 anni in su, risponderebbero “Assolutamente no. È un paese civilizzati il nostro!”

Eppure il 31,5 % delle donne con età compresa tra i 16 e i 70 anni nel corso della loro vita ha subìto almeno una violenza sessuale[2]. Il 31,5%.

E pensate un po’, sapete perché la gente malgrado questo dato pensa che in Italia non ci sia una cultura dello stupro? Perché in questo 31,5% di donne che hanno subito violenza, il 78% delle vittime non si è rivolto a nessuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati.

Perché?

Eccolo il punto: paura, vergogna e molto altro.

Qui devo riportare un altro termine: VICTIM BLAMING ovvero traslare la colpevolezza sulla vittima (allarme Grillo attivato!), minando quindi la sua credibilità.

Una donna tendenzialmente non denuncia perché teme di rimanere vittima anche di Victim Blaming. Chiarisco subito, è pur sempre un manuale per Dummies no?

Nel momento in cui una donna trova il coraggio e la forza di denunciare ecco cosa succede: le numerose falle nel sistema giuridico, ma soprattutto, talvolta, la mancanza di sensibilità ed empatia nei contesti in cui la vittima si ritrova al momento della denuncia, fanno sì che si inneschi quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria. La vittima “subisce” una serie di domande, chiarimenti, e richieste di dettagli (talvolta superflui) che riportano, facendola rivivere, alla violenza subita. Tutto questo perché il “ragionevole dubbio” viene applicato nei confronti della credibilità della vittima non sulla colpevolezza dello stupratore. Una sottile differenza che se analizzata bene non è poi così sottile: queste domande vogliono in realtà cercare una qualche incoerenza nella narrazione della vittima. Vogliono “fregarla” detta in parole povere!

Ecco quindi tornare il nostro argomento principale: la cultura dello stupro. Purtroppo i pregiudizi sessisti sono ancora insiti nella nostra cultura e se questi sono presenti in chi per primo assiste le vittime di violenza di genere il risultato è che chi denuncia ne esce martoriato.

Michela Murgia spiega il fenomeno su Repubblica dicendo che «il consenso tra adulti esiste se le persone fanno un patto su termini condivisi», aggiungendo «Per un meccanismo sociale che si chiama cultura dello stupro – quella secondo la quale la violenza è sexy e la sessualità è violenta – in Italia avviene l’esatto opposto: il consenso femminile ai rapporti sessuali è considerato implicito anche in assenza di disaccordo. Se non dici no, allora è già sì».

Arriviamo ad esempi concreti. Volete delle frasi tipiche di quando si viene a sapere che una donna è stata stuprata? Eccovele: “Sono solamente ragazzi”, “stavano giocando”, ma poi lei “indossava una gonna troppo corta”, “era ubriaca”, “se l’è cercata”, “Se vai in giro da sola cosa ti aspetti?”. Queste sono solo alcune (le prime che mi sono venute in mente) e anche questo atteggiamento ha un nome specifico: Slut Shaming, cioè la pratica di stigmatizzare comportamenti e desideri sessuali della donna considerandoli sfacciatamente volgari, inappropriati o provocanti[3]. E attenzione, questa non è una pratica prettamente maschile, no, a volte sono proprio le donne a dire frasi del genere. Sì perché la Rape Culture, come detto, fa parte di una cultura patriarcale da cui ancora non siamo riusciti ad allontanarci del tutto. È comprensibile, non è facile accettare che stupri ed abusi sessuali non siano solo casi eclatanti e straordinari, bensì parte integrante di un invisibile quanto concreto sistema sociale, culturale e ideologico.

Torno ora al concetto di “Rape Culture” ma soprattutto alle sue origini, non della denominazione, bensì dell’atto stesso dello stupro.

Nel 1975 l’attivista Susan Brownmiller esprime il PARADIGMA DELLA CULTURA DELLO STUPRO. Nel suo libro “Against Our Will: Men, Women and Rape” è chiara la sua visione per cui lo stupro sia “un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”. Quello che affascina nello studio della Brownmiller è che ritiene che il fenomeno dello stupro non sia legato all’immoralità degli uomini che cercano gratificazione sessuale, bensì è un’invenzione dell’uomo per mantenere un sistema di dominio psicologico sulle donne. Vi cito un passaggio:

“L’ingresso forzato di lui nel corpo di lei, nonostante le proteste e le lotte fisiche di lei, divenne il veicolo della conquista vittoriosa sulla vita di lei, la prova ultima della forza superiore di lui, il trionfo della sua virilità. La scoperta da parte dell’uomo che i suoi genitali possono servire come arma per generare paura deve essere considerata una delle scoperte più importanti nell’epoca preistorica, insieme all’uso del fuoco e alla prima ascia di pietra grezza.”

In pratica un atto di potere e di controllo. Bisogna assolutamente far passare il messaggio che “ammettere che lo stupro è radicato nei desideri umani in realtà equivale a un incitamento allo stupro[4]

Il RAINN (Rape, Abuse & Incest National Network), una delle principali organizzazioni del Nord America contro la violenza sessuale, non è del tutto d’accordo. In un rapporto infatti sostiene che lo stupro “è il prodotto di individui che hanno deciso di ignorare il messaggio culturale travolgente secondo cui lo stupro è sbagliato” e ancora “la tendenza a concentrarsi su fattori culturali che presumibilmente condonano o normalizzano lo stupro ha l’effetto paradossale di rendere più difficile fermare la violenza sessuale, poiché rimuove l’attenzione dall’individuo in errore, e apparentemente attenua la responsabilità personale delle proprie azioni”.

Il dibattito è ancora aperto e penso lo sarà ancora per molto, ma interessante è ciò che ha detto la giornalista britannica Laurie Penny: “nominare e denunciare la cultura dello stupro è stata una delle pratiche femministe più importanti degli ultimi tempi, ma anche una delle più discusse e fraintese”.

Infine, voglio ricordare e sottolineare mille volte che la Rape Culture, come dice Laurie Penny , non descrive necessariamente una società dove lo stupro è routine, attenzione: “la cultura dello stupro descrive il processo per cui lo stupro e le molestie sessuali vengono banalizzate e giustificate aspettandosi che le donne vivano nella paura.”[5]

Visto che ho presentato questo articolo come un mio tentativo di divulgare in modo semplice il concetto di Rape Culture, provvedo a lasciare di seguito un piccolo glossario da tenere a mente in futuro, quando sentirete o leggerete dello stupro o violenza subìto da una donna.

  • Cultura dello stupro/Rape Culture: Per gli studi di genere e la sociologia include tutti quegli atteggiamenti che tendono a giustificare e normalizzare la violenza sessuale subita dalle donne
  • Slut Shaming (stigma della puttana): termine definire l’atto di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si discostino dalle aspettative di genere tradizionali 
  • Victim Blaming (colpevolizzazione della vittima): atto che ritiene la vittima responsabile del crimine che ha subìto e denunciato portandola ad autocolpevolizzarsi.

Cocludo ricordando una cosa importante:

«Non è necessario aver subìto uno stupro per subire le conseguenze della cultura dello stupro. Non è necessario essere uno stupratore seriale per perpetuare la cultura dello stupro. Non è necessario essere un convinto misogino per beneficiare della cultura dello stupro».

immagine presa dal profilo IG di Repubblica

Grazie al cielo esistono uomini come Michele Dal Forno, un ragazzo di 21 anni che per aiutare una ragazza in difficoltà è stato aggredito con una coltellata che gli ha sfregiato il viso. Mi viene da dire, “Per ogni Beppe Grillo dovrebbero esserci almeno 10 Michele Dal Forno”.

Lady F.


[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_dello_stupro

[2] Dati ISTAT https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza

[3] https://www.wired.it/attualita/media/2021/04/21/rape-culture-cultura-dello-stupro-cos-e/?refresh_ce=

[4] C. Brown Travis, Evolution, Gender, and Rape

[5] https://longreads.com/2017/10/10/the-horizon-of-desire/

16 aprile 1746. La Battaglia di Culloden e le Clearances delle Highland

Questa data segna l’inizio di uno dei periodi più dolorosi della storia della Scozia.

Oggi, per commemorarne i 275 anni, vi porterò nel XVIII secolo un tempo segnato da sommosse, ribellioni, battaglie sanguinose e controversie che si concluderà con la tragica battaglia di Culloden che cambierà la comunità e l’infrastruttura nelle Highland per sempre.

Ma cominciamo dal principio. Tutto inizia con Giacomo VII (come lo chiamano in Scozia) o Giacomo Secondo (come è conosciuto in Inghilterra), l’ultimo monarca cattolico a governare i regni di Inghilterra, Scozia ed Irlanda. In seguito all’invasione del genero protestante e della destituzione dal trono, Giacomo è costretto all’esilio in Francia. Il visconte Henry Dundas, il più zelante sostenitore scozzese di Giacomo, raduna delle truppe e avvia un’azione militare contro le forze di Guglielmo e Maria. Scoppia quindi la prima rivolta giacobita, ma non ha molto seguito. Nel 1707 i due regni di Scozia ed Inghilterra vengono uniti con grande sgomento di quanti sostenevano la causa di Giacomo VIII o Giacomo III il quale cerca di reclamare il trono due volte nel 1708 e nel 1715. Nel 1719 i giacobiti trovano un alleato nella Spagna. Non essendo riuscito a persuadere il governo francese ad impegnarsi in un’altra invasione, il principe Carlo, chiamato “il giovane pretendente” o “Bonnie Prince Charlie”, decide di finanziare la sua insurrezione. Naviga dalla Francia alla Scozia e arriva nelle Ebridi esterne nel luglio 1745 da cui ripartire per attraversare le Highland e radunare un esercito giacobino. Non tutti i clan però si uniscono alla causa giacobita e proprio per questo non si può parlare di una ribellione nazionale; tuttavia furono moltissime le persone che decidono di unirsi al Bonnie Prince Charlie. Con il suo esercito marcia verso sud con l’intenzione di entrare a Londra e le vittorie e i successi delle forze giacobite crescono di giorno in giorno. Charlie e i suoi conquistano prima Edimburgo ed infine quasi 10.000 uomini giungono a Derby, poco distante dalla capitale inglese, ma poi la situazione si ribalta: piano piano il morale delle truppe inizia a calare, complici un rigido inverno, la carenza di provviste e la lontananza da casa. È a questo punto che viene presa la decisione più sbagliata che segnerà tutte le mosse future. Si ordina infatti di tornare a nord, in una lunghissima marcia al freddo, nella neve, nel fango, sotto il costante attacco degli inglesi che spingono l’esercito giacobita sempre più a nord.

Arriviamo dunque alla fatidica battaglia il 16 aprile 1746 in una brughiera paludosa chiamata Culloden. Un esercito di circa 5400 giacobini si prepara ad un brutale ed inesorabile scontro con i più di 8000 soldati inglesi. Si conclude nel giro di poche ore una vera e propria carneficina per la parte scozzese: senza nessun consiglio di guerra, infatti, le truppe giacobite vengono letteralmente spedite incontro alla morte. Gli scozzesi si schierano su due linee, la cavalleria meno di 200 elementi, ai lati e 12 vecchi cannoni leggeri davanti alle truppe. Gli inglesi invece possono contare su un gruppo nettamente più numeroso di cavalleria e anche su più cannoni e mortai. A mezzogiorno, sotto una pioggia battente, le truppe governative avanzano ordinatamente sul campo di battaglia e prendono posizione, le cornamusa scozzesi iniziano a suonare sfidati da rullo dei tamburi inglesi; i piccoli cannoni giacobiti fanno fuoco ma non provocano danni, al contrario la forte artiglieria pesante di Cumberland spezza subito le linee scozzesi che ricevono però l’ordine di mantenere la loro posizione. Il Bonnie Prince Charlie è troppo distante per vedere i danni provocati nelle prime linee e ordina di attaccare.

Rievocazione della carica giacobita

Quasi un’ora dopo infine ha inizio la carica giacobita. Gli scozzesi avevano da sempre usato la carica come tattica di battaglia sorprendendo il nemico ed aggredendolo selvaggiamente, puntando sulla velocità che permetteva di raggiungere le linee avversarie ricevendo solo una carica di fucile o al massimo due prima di scontrarsi corpo a corpo. Una tattica che si era quasi sempre rivelata vincente ma non in questa occasione: il vasto campo aperto, il terreno estremamente paludoso e la potenza del fuoco nemico hanno la meglio sulla velocità, sulla forza e sulla ferocia degli Highlander che avanzano disordinatamente e troppo lentamente, rimanendo esposti al fuoco dei moschetti troppo a lungo. La battaglia è violenta e brutale e si conclude come detto nel giro di solo un’ora. Sul campo insanguinato di Culloden giacciono circa 1250 morti  giacobiti e altrettanti erano feriti; 376 vengono fatti prigionieri. Le truppe inglesi perdono solo 50 uomini e 300 rimangono feriti al termine dello scontro. Il duca di Cumberland ordina di sterminare immediatamente tutti i feriti agonizzante sul campo di battaglia, di rincorrere ed uccidere i fuggiaschi e di non risparmiare nemmeno i civili, donne i bambini che offrono aiuto e riparo ai giacobiti sconfitti. Molti di questi vengono catturati e portati in Inghilterra, stipati in prigioni disumane e torturati, affamati, umiliati, lasciati a morire di stenti.

Hanno giurato di combattere e morire per il loro bel principe e così avviene.

Riesci a sentirli, riesci a vederli marciare con orgoglio attraverso la brughiera? Senti il vento soffiare attraverso la neve alla deriva? Dimmi, riesci a vederli i fantasmi di Culloden?

[…] Spade e baionette si schiantano – da uomo a uomo si scontrano. Sono venuti per combattere, per vivere e ora muoiono.

– The Ghost of Culloden –

A seguito delle barbarie commesse durante e dopo la battaglia al duca di Cumberland viene dato il soprannome di “macellaio”.

936 giacobiti vengono deportati nelle colonie americane o nelle Indie occidentali; 120 vengono condannati a morte e 1287 vengono liberati. Molti altri muoiono in prigione o in mare.

E il principe Charlie? Lui riesce a fuggire mettendonsi in salvo a seguito di una lunga fuga in lungo in largo per la Scozia e aiutato da Flora McDonald la cui storia potete conoscere nel mio episodio PodCast a lei dedicato.

La famosa canzone popolare “the Skye Boat song” narra proprio di questa fuga e di come il principe sia riuscito a tornare a Roma dove poi morirà vecchio, depresso ed alcolizzato.

La Scozia ne esce definitivamente vinta e umiliata: l’indipendenza perduta, la Chiesa cattolica brutalmente perseguitata. Nelle Highland negli anni che seguono il governo inglese mette in atto un vero e proprio tentativo di repressione totale della cultura gaelica scozzese e di sottomissione degli abitanti. L’intenzione è di spezzare la volontà e l’orgoglio di questo popolo. Per prima cosa occorre smantellare il sistema dei clan ed eliminare il simbolo della cultura gaelica: vengono così banditi i kilt, il tartan, le cornamusa e l’uso della lingua gaelica. I clan vengono sciolti e privati delle loro proprietà, si anglicizzano i nomi delle persone e dei luoghi ed infine si attuano le cosiddette “clearances”: delle vere e proprie pulizie etniche che durano approssimativamente dal 1750 al 1880. Durante questi anni moltissimi scozzesi sono costretti ad abbandonare le loro case per far spazio all’allevamento delle pecore emigrando in America spostandosi sulla costa.

Consiglio il libro in foto: molto accurato.

Il luogo della battaglia viene affidato al lealista Duncan, rimanendo proprietà della famiglia per i successivi 150 anni. Nel 1881 forse un erede del precedente Duncan, costruisce l’odierno Care commemorativo e fa reggere le pietre a memoria degli uomini deceduti in battaglia; vengono anche restaurati i due antichi coat presenti sul campo.

Monumento ai caduti

Ma se qualcuno cerca di conservare questo luogo, altri sembrano far di tutto per distruggerlo. Nel 1930 infatti viene costruita nel bel mezzo del campo un edificio con sala da tea e pompa di benzina; fortunatamente nel 1931 si forma “the National Trust of Scotland”, ovvero l’ente nazionale che cura i siti storici e culturali, che si batte per proteggere il Culloden Battlefield.

Grazie alla gentile donazione di parti di terreno fatta da proprietari terrieri si riusce a recuperare parte dell’antico campo di battaglia, anche se una grandissima parte rimane ancora in mano a privati. A seguito di scavi archeologici avvenuti nel 2004 nel 2005 si è scoperto che il centro visitatori sorgeva sulla seconda linea dell’esercito inglese, si è provveduto quindi a spostarlo e vista l’occasione a modernizzarlo con un interessante percorso che spiega le rivolte giacobite. Attraverso dei sentieri pedonali, oggi è possibile passeggiare per Culloden Moor e vedere l’esatta ubicazione delle linee giacobite e inglesi.

Mappa dello schieramento

Visitare questo luogo è un’esperienza davvero toccante: camminare su questo campo di battaglia dove tanti scozzesi hanno perso la loro vita per i loro ideali e per la loro libertà è un’emozione fortissima che raramente passa inosservata.

Ph by Me “Chicco porge omaggio al Clan Fraser”

Lady F.

April 16, 1746. The Battle of Culloden and the Highland Clearances

English Version

This date marks the beginning of one of the most painful periods in the history of Scotland.

Today I will take you into the 18th century a time marked by riots, rebellions, bloody battles and controversies that will end with the tragic Battle of Culloden that will change the community and infrastructure in the Highlands forever.

But let’s start from the beginning. It all starts with James VII (as they call him in Scotland) or James the Second (as he is known in England), the last Catholic monarch to rule the kingdoms of England, Scotland and Ireland. Following the invasion of his Protestant son-in-law and his removal from the throne, James is forced into exile in France. Viscount Henry Dundas, James’ most zealous Scottish supporter, rallies troops and initiates military action against William and Mary’s forces. Then the first Jacobite revolt broke out, but did not have much following. In 1707 the two kingdoms of Scotland and England were united to the dismay of those who supported the cause of James VIII or James III who tried to claim the throne twice in 1708 and in 1715. In 1719 the Jacobites found an ally in Spain. Having failed to persuade the French government to engage in another invasion, Prince Charles, called “the young pretender” or “Bonnie Prince Charlie,” decides to finance his insurrection. He sails from France to Scotland and arrives in the Outer Hebrides in July 1745 from which to leave to cross the Highlands and gather a Jacobin army. Not all clans, however, join the Jacobite cause and for this reason we cannot speak of a national rebellion; however, there were a lot of people who decided to join Bonnie Prince Charlie. With his army he marches south with the intention of entering London and the victories and successes of the Jacobite forces grow by the day. Charlie and his team first conquer Edinburgh and finally nearly 10,000 men arrive in Derby, not far from the English capital, but then the situation is reversed: slowly the morale of the troops begins to drop, thanks to a harsh winter, a lack of supplies and the distance from home. It is at this point that the most wrong decision is made which will mark all future moves. In fact, it is ordered to return to the north, in a very long march in the cold, in the snow, in the mud, under the constant attack of the British who are pushing the Jacobite army further and further north. We therefore arrive at the fateful battle on April 16, 1746 in a swampy moor called Culloden. An army of about 5400 Jacobins prepares for a brutal and inexorable confrontation with more than 8000 British soldiers. A real carnage for the Scottish side ends in a few hours: without any war council, in fact, the Jacobite troops are literally sent to meet their death. The Scots deployed on two lines, the cavalry less than 200 elements, on the sides and 12 old light guns in front of the troops. The British, on the other hand, can count on a much larger group of cavalry and also on more cannons and mortars. At noon, in the pouring rain, the government troops advance neatly on the battlefield and take up positions, the Scottish bagpipes begin to play challenged by English drumming; the small Jacobite cannons fire but cause no damage, on the contrary the strong Cumberland heavy artillery immediately breaks the Scottish lines which are however ordered to maintain their position. Bonnie Prince Charlie is too far away to see the damage done in the front lines and orders to attack.

Almost an hour later the Jacobite charge finally begins. The Scots had always used the charge as a battle tactic surprising the enemy and attacking him wildly, focusing on the speed that allowed them to reach the opposing lines receiving only a rifle charge or at most two before clashing hand to hand. A tactic that had almost always proved successful but not on this occasion: the vast open field, the extremely swampy terrain and the power of the enemy fire have the better of the speed, strength and ferocity of the Highlanders who advance in disorder and too slowly, being exposed to musket fire for too long. The battle is violent and brutal and ends as mentioned in just an hour. On the bloody field of Culloden lie about 1250 Jacobite dead and as many were wounded; 376 are taken prisoner. The British troops lose only 50 men and 300 are wounded at the end of the battle. The Duke of Cumberland orders to immediately exterminate all the dying wounded on the battlefield, to chase and kill the fugitives and not to spare even the civilians, women and children who offer help and shelter to the already jacobites defeated. Many of these are captured and taken to England, crammed into inhuman prisons and tortured, starved, humiliated, left to die of starvation.

They swore to fight and die for their handsome prince and so it happens.

Following the barbarism committed during and after the battle, the Duke of Cumberland was given the nickname of “butcher”.

936 Jacobites are deported to the American colonies or the West Indies; 120 are sentenced to death and 1287 are freed. Many others die in prison or at sea.

And Prince Charlie? He manages to escape by putting himself to safety following a long flight far and wide to Scotland and helped by Flora McDonald whose story you can know in my PodCast episode dedicated to her.

The famous popular song “the Skye Boat song” tells of this escape and how the prince managed to return to Rome where he will later die old, depressed and alcoholic.

Scotland comes out definitively vanquished and humiliated: independence lost, the Catholic Church brutally persecuted. In the following years in the Highlands the English government put in place a real attempt at total repression of the Scottish Gaelic culture and subjugation of the inhabitants. The intention is to break the will and pride of this people. First, it is necessary to dismantle the clan system and eliminate the symbol of Gaelic culture: kilts, tartan, bagpipes and the use of the Gaelic language are thus banned. The clans are dissolved and deprived of their properties, the names of people and places are anglicized and finally the so-called “clearances” are implemented: real ethnic cleansing that lasted approximately from 1750 to 1880. During these years many Scots are forced to abandon their homes to make room for sheep farming by emigrating to America by moving to the coast.

The site of the battle is entrusted to the loyalist Duncan, remaining property of the family for the next 150 years. In 1881, perhaps an heir of the previous Duncan, he built today’s Memorial Care and had the stones held in memory of the men who died in battle; the two ancient coats present on the field are also restored.

But if someone tries to keep this place, others seem to go out of their way to destroy it. In fact, in 1930 a building with a tea room and petrol pump was built in the middle of the field; Fortunately, in 1931 “the National Trust of Scotland” was formed, the national body that takes care of historical and cultural sites, which fights to protect the Culloden Battlefield.

Thanks to the kind donation of parts of land made by landowners, it was possible to recover part of the ancient battlefield, even if a very large part still remains in private hands. Following archaeological excavations that took place in 2004 in 2005 it was discovered that the visitor center stood on the second line of the English army, it was then moved and given the opportunity to modernize it with an interesting path that explains the Jacobite revolts. Through footpaths, it is now possible to stroll through Culloden Moor and see the exact location of the Jacobite and English lines.

Visiting this place is a truly touching experience: walking on this battlefield where so many Scots have lost their lives for their ideals and for their freedom is a very strong emotion that rarely goes unnoticed.

Lady F.

Quando una poltrona può fare la differenza

Non è solo una questione sessista.

Il video parla chiaro: Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione Europea, è chiaramente sorpresa e infastidita dall’assenza di una poltrona per lei. Deve accomodarsi su un divano mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Consiglio UE Charles Michel hanno a disposizione due poltrone dorate con le rispettive bandiere alle spalle.

Una scena che raggela il sangue quella accaduta nella giornata di ieri, 7 aprile 2021, perché non solo rivela una maleducazione inaudita (ovviamente secondo i parametri occidentali), non è nemmeno solo maschilismo, bensì a mio parere ciò che è successo ad Ankara è un vero e proprio affronto alla libertà, al rispetto dei diritti e della civile convivenza.

Vedere chiaramente sfilarsi (letteralmente) da sotto il sedere ciò che per secoli è stato duramente conquistato avrebbe dovuto scatenare per lo meno un accenno di biasimo nei confronti della Turchia, nella persona di Erdogan, invece si è quasi fatto finta di nulla. Michel siede sulla sua bella poltrona e la von der Leyen li osserva dal suo divanetto.

Le dichiarazioni successive?

Se la Turchia si difende dicendo che ha seguito il protocollo e che la disposizione dei posti “è stata suggerita dalla parte europea prima dell’incontro”, il portavoce della commissione europea, Eric Mamer, risponde precisando che la Commissione “si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato” e che “saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro”. Sempre Mamer precisa che “il servizio del protocollo della Commissione non ha partecipato al viaggio per il Covid”.

Ci sono già state situazioni analoghe in cui l’incontro avveniva tra Erdogan e altre due persone, ma essendo tutti uomini in quel caso le poltrone erano tre senza nessun problema organizzativo.

Il presidente del Consiglio Michel e la stessa presindentessa della Commissione europea, sostengono che la situazione è stata deplorevole, ma che hanno scelto di non aggravarla con un incidente politico. La von der Leyen addirittura afferma di aver preferito dare priorità alle questioni di sostanza piuttosto che al protocollo.

Ecco, è qui che mi sale la rabbia.

Capisco la scelta di non voler avviare una guerra mondiale, ma penso che ci siano modi eleganti ed educati di manifestare la propria disapprovazione davanti ad una situazione incresciosa, anche perché non dire niente a volte non è segno di superiorità, bensì di debolezza. Ciò che è accaduto mostra il problema di asservimento che l’Europa ha nelle relazioni con la Turchia.

Non solo hanno mancato di rispetto alle donne e al ruolo che ricoprono nella cultura occidentale, ma non hanno nemmeno rispettato le istituzioni europee e questo doveva essere sottolineato, non sottovalutato.

Il presidente Michel ad esempio, una volta accortosi che c’erano solo due sedie avrebbe potuto cedere il suo posto alla presidentessa, oppure non sedersi finché non fosse arrivata una poltrona anche alla von der Leyen. La stessa presidentessa avrebbe potuto chiedere di avere una poltrona come le altre e rifiutarsi di sedersi lontana e in disparte.

Qualcuno potrebbe obiettare “eh ma se voi donne volete la parità perché Michel avrebbe dovuto cedere il suo posto?”

In primo luogo perché non è una questione di cavalleria/educazione, bensì di rispetto verso la gerarchia delle figure istituzionali: Ursula von der Leyen ricopre un ruolo più alto rispetto a Charles Michel e quindi se proprio dovevano esserci due sedie, sarebbe stata lei a doversi sedere (ammonizione quindi anche per il presidente Michel che sembra non dar peso a questo dettaglio)

E poi perché è chiaramente una provocazione di un uomo che ha dimostrato in più occasioni di avvalersi di un modello illiberale che schiaccia oppositori e minoranze, vedasi il fatto dei 50 mila militari mantenuti a Cipro, trattati internazionali e leggi infrante per fini economici, spazio marittimo tolto alla Grecia, la chiesa di Santa Sofia trasformata in moschea, ecc.; insomma un esempio di boria dittatoriale tipica del presidente turco.

Ciò che è successo ad Ankara nella giornata del 7 aprile 2021 non deve rimanere in sordina: l’affronto non è stato solo verso una donna, bensì verso una tipologia di cultura e società.

Riflettiamoci.

Lady F.

Donne e Videogiochi. La rivalsa delle Guerriere

Ph by Sara Castellani

È possibile trovare dei segnali di cambiamento anche nelle piccole cose?

Io dico di sì.

Sarà che mi esalto con un nonnulla, ma vedere l’aggiornamento di un gioco di mio figlio mi ha illuminato la giornata.

Non sono mai stata competente in campo di videogiochi, mi affascinano ma sono proprio negata. Il massino a cui sono arrivata sono stati “Tetris” e il fantastico “Snake” con cui giocavo con il cellulare Nokia nelle mie sedute in bagno (e chi nega di aver fatto la stessa cosa MENTE!).

Il mio ex-fidanzato aveva provato a introdurmi nel mondo di “Neverwinter Night” e ammetto di essermi appassionata parecchio: un videogioco di ruolo per pc basato sulle regole di Dungeons & Dragons (gioco di ruolo che già praticavamo una volta a settimana in compagnia di amici). Vi dico solo che ci sono stati momenti in cui io e il mio ex comunicavamo attraverso i nostri personaggi invece che scriverci sms o chiamarci… Decisamente altri tempi! In ogni caso per me era solo un (fin troppo travolgente) passatempo e quindi non andavo a cercare qualsiasi articolo scritto su questo gioco per trovare il modo di progredire di livello, avere quel potere piuttosto che quell’arma, ecc. Insomma, dopo circa uno o due mesi l’ho piantato là.

Come detto però i videogiochi mi affascinano, soprattutto se hanno della storia e del fantasy, e quindi quando mio figlio ha cominciato ad avere l’età per avere console o pc è capitato che mi mettessi ad osservarlo. Ho capito subito una cosa: se ero negata vent’anni fa immaginate quanto lo possa essere ora. ‘Na chiavica proprio! Derisa sia da mio marito che da mio figlio però non demordo e continuo quindi a seguire i giochi di Francesco, un po’ per controllare che siano sempre adatti alla sua capacità di distinguere la realtà dal gioco e di certo un po’ perché oggettivamente alcuni sono fatti bene. 

Con la pandemia e il primo lockdown poi mio padre e mio figlio hanno cominciato a giocare insieme in rete. Era il loro modo per stare insieme, visto quanto soffrivano il non potersi vedere, e ora ad un anno di distanza hanno ancora il loro appuntamento fisso due volte a settimana con il gioco “Age of Empire”

Questo è un videogioco strategico in tempo reale con ambientazione storica in cui si controlla una popolazione che deve progredire cercando di divenire forte economicamente e militarmente. 

“Tutto questo per dire cosa?” vi chiederete. 

Beh, da marzo al 14 aprile sarà possibile scaricare l’aggiornamento di questo gioco realizzato dalla community per permettere ai giocatori di cimentarsi in missioni dedicate o ispirate ad alcune grandi donne della storia medievale. Un grandissimo gesto questo che a mio parere mostra come lentamente anche le donne vengano prese in considerazione negli avvenimenti storici. 

Una cosa di cui si è parlato molto e io per prima con  il mio podcast lo dimostro, è sicuramente il fatto che la storia è stata scritta in gran parte da uomini e di conseguenza le figure femminili sono state ignorate o, addirittura, cancellate per non offuscare il potere patriarcale. Da un po’ di tempo a questa parte però, le cose stanno cambiando: sempre più storici parlano, scrivono e studiano di grandi donne che seppur rischiando molto hanno fatto sentire la loro voce. È un processo che richiederà ancora tempo, ma vedere come anche attraverso un videogioco questa nuova mentalità riesca a farsi spazio non può che riempirmi di gioia.

Ecco quindi che tra i grandi re e guerrieri citati nel gioco, mio figlio inizia a nominare Giovanna D’Arco, la pulzella d’Orleans che ha guidato i francesi nella guerra dei cent’anni incoronando Carlo VII di Francia; la  terribile regina etiope Yodit; Jimena Diaz, moglie di El Cid e difensora di Valencia dagli attacchi dell’emiro della Spagna islamica; Giacomina di Hainaut contessa d’Olanda, Zelanda e duchessa di Baviera; e per finire Sichelgaita di Salerno, principessa longobarda che durante la battaglia di Durazzo del 1081 combatté in prima persona armata di corazza venendo definita una “seconda Atena”. Insomma, direi niente male! Capite ora perché mi sono esaltata tanto? 

Trovo che l’iniziativa di Ensemble Studios e Microsoft davvero bella soprattutto nella spiegazione che ne danno:

“Nel corso degli echi del tempo, le donne hanno continuato a sfidare le aspettative e lasciare segni clamorosi nella storia. Questo mese, in onore della Giornata internazionale della donna e del Mese della storia della donna qui negli Stati Uniti, puntiamo i riflettori su parte di quella storia con un nuovo evento, diverse icone nuove di zecca, mod visive e altro ancora”

È risaputo che nel contesto videoludico i personaggi femminili siano particolarmente bistrattati, quindi intravedo in questa iniziativa una mano tesa verso le donne e verso il rispetto della loro storia. O almeno a me piace vederla così.

E voi cosa ne pensate?

Lady f.

ps: grazie ad Andrea Masetti per la soffiata e a Francesco Vitrani per la consulenza

La lingua italiana può essere FEMMINA

È diventato un caso nazionale (e anche internazionale considerando il palco su cui il fatto è successo): durante il Festival di Sanremo la musicista Beatrice Venezi ospite di Amadeus e Fiorello sostiene che malgrado esista il termine “Direttrice d’orchestra” lei preferisce essere chiamata con il termine al maschile. 

“Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro. Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è ‘direttore d’orchestra”.

A quanto pare il “direttore” ignora il fatto che in italiano il corrispondente femminile esiste, solo che solitamente si parla di direttore semplicemente perché storicamente questo ruolo è stato ricoperto da uomini. E quel che è peggio si pensa che declinandolo al femminile sminuisca automaticamente la competenza. 

Questo l’ho notato quando ho chiesto l’opinione della mia community IG riguardo questo argomento. In moltissime mi hanno scritto che preferiscono il termine maschile del loro ruolo lavorativo perché è preso più seriamente, ma soprattutto perché se usata al femminile solitamente è per schernire. 

Ecco qua. 

Rimanendo ferma dell’idea che ognuno può fare quello che vuole (e quindi farsi chiamare come preferisce) ritengo che utilizzare un linguaggio inclusivo sia un tassello importante nel raggiungimento di un riconoscimento paritario. 

Cosa si intende per linguaggio inclusivo? Questo è un linguaggio che non deve essere discriminatorio nei confronti dei generi. Ultimamente ne abbiamo sentito parlare molto, soprattutto nell’ambito proprio delle figure professionali. Termini come “sindaca”, “avvocata”, “ministra” e “ingegnera” sembrano addirittura indignare le persone (sia uomini che donne). Ma perché? In un programma televisivo in onda su TV8 qualche giorno fa parlavano proprio di questo e un opinionista sosteneva che questi termini fossero “brutti e cacofonici” e un altro ancora sostena che il termine “ingegnere” ad esempio poteva considerarsi NEUTRO. 

Ora, per quanto riguarda la prima opinione la si può definire soggettiva e quindi quasi inutile. Il secondo intervento, apparentemente più oggettivo, invece denota una certa ignoranza della lingua italiana: perfino mio figlio di 11 anni sa che grammaticalmente l’italiano non ha il genere neutro. Sinceramente penso di poter sintetizzare il pensiero di questi due opinionisti con quello che forse è il pensiero di molti: non siamo abituati al suono di questa declinazione al femminile per lavori che fino a poco tempo fa erano svolti unicamente da uomini. 

Disgusto che invece non si nota per parole (e lavori) come contadina, operaia, commessa, maestra. Insomma si palesa che la scalata sociale/lavorativa delle donne nell’ultimo secolo non è ancora del tutto accettata (ma va?). Solo che farlo presente, con cose apparentemente futili come le parole, genera dissidi e le frecciate via social fra politici e personaggi pubblici ne sono la prova. 

Tengo particolarmente a segnalare l’intervento di Gianna Fratta, direttrice (orgogliosamente direttrice) che il giorno seguente all’intervento di Beatrice Venezi scrive un post interessante in cui sostiene “IERI SERA A SANREMO UN SALTO INDIETRO DI 50 ANNI PER TUTTE LE DONNE E GLI UOMINI DI QUESTO PAESE E UNO SCHIAFFO IN FACCIA ALLE TANTE CHE SI SONO BATTUTE E ANCORA SI BATTONO PER LA PARITÀ!”  oppure quello della deputata Laura Boldrini che afferma “Se i termini al femminile vengono nascosti, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti!” (fonte: La Repubblica).

Io mi sento d’accordo con queste affermazioni: la lingua è specchio della società e se oggi le donne ricoprono ruoli che fino a poco tempo fa erano esclusivamente riservati agli uomini, allora è giusto che questi si declinino al femminile. Si determina così una Concordanza Grammaticale.

Stefania Cavagnoli nel articolo “Linguaggio giuridico e linguaggio di genere” cita una pubblicazione di Anna Sabatini del 1987 in cui sostiene che “la lingua non è riflesso diretto dei fatti reali, ma esprime la nostra visione dei fatti, inoltre, fissandosi in certe forme, in notevole misura condiziona e guida tale visione”. In pratica, la lingua non è così e basta, la lingua è il prodotto dell’interazione umana e del pensiero, come tale quindi può e deve essere modificata sulla base delle relazioni e degli avvenimenti sociali.

L’Italia poi non è l’unica nazione che sottolinea la necessità di adattare la lingua alla condizione sociale, anche la Francia ha cominciato una battaglia considerata futile da molti. Più di 300 insegnanti hanno firmato una petizione in cui chiedono di reintrodurre nella lingua francese la Regola di Prossimità, ovvero la regola per cui l’aggettivo concorda con il genere del sostantivo a lui più vicino. Un esempio? I cani e le coccinelle sono belle. Dal ‘600 questa regola è cambiata e il maschile prevale sul femminile sempre (articolo originale QUI).

Capisco che apparentemente queste campagne possano sembrare futili, l’obiezione più frequente alle critiche nate dopo l’intervento di Beatrice Venezi a Sanremo è stata infatti: “Ma cosa importa del nome? Ci sono cose ben più importante per cui battersi!” 

Certo che ci sono cose più importanti. Alcun* mi hanno scritto in direct nel mio profilo IG dicendo che più che badare al fatto che una donna sia chiamata avvocato o avvocata, non sarebbe meglio concentrarsi nella lotta per una pari retribuzione? “Ovvio che sì!” è stata ed è la mia risposta. Ma non credete che per ottenere uno stipendio uguale a quello di un uomo noi donne non dovremmo in primis riconoscere il nostro ruolo attivo nella figura professionale che ricopriamo dandoci il giusto nome/titolo? 

Dare un nome alle cose significa farle esistere e gettare una luce nuova sul loro essere. Z. Baumann sosteneva l’importanza ontologica della lingua e della fondamentale necessità di denominare le cose del mondo in cui viviamo. “Il nome è importante, non solo per i significati che include, ma perché l’atto di denominare non è un dato tecnico, ma descrive un processo culturale e intellettuale di primaria importanza”

Ecco perché è importante sostenere la femminilizzazione dei termini che identificano delle professioni. Prima di parlare di stipendi, di valorizzazione, è il nome che deve cambiare perché è il nome che renderà reali il cambiamento sociale che la donna ha realizzato e continua a realizzare.

Quindi mi sento di concordare con Mariangela Galatea Vaglio nel suo articolo per L’Espresso quando afferma che “No, la lingua italiana non è sessista. Ci sono il maschile e il femminile. Cominciate ad usarli!” (QUI l’articolo)

E aggiungo: se in Italia siamo riusciti ad introdurre parole come “Petaloso” davvero vogliamo indignarci al suono di Ingegnera?

Suvvia!

Lady Fra’